Odio il capodanno. Non lo sopporto, è un qualcosa di stupido, insulso. Come buona parte delle date costituite. Lo odio perché mi immalinconisce quell’aria di finta ed ingenua speranza che lo riveste, fatta di apotropaici autoinganni ed autoillusioni. Che serviranno, sì, per esorcizzare una certa paura del domani (e, più in generale, del cambiamento) che è connaturata in noi. Ma rimangono comunque stucchevoli e metodici, appunto, autoinganni, tanto per ricitare Svevo.
E, tanto per (ri)citare anche Gramsci, “voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno” . Solo così posso sentirmi davvero vivo e, da bravo materialista quale sono, davvero padrone della mia vita. Cambiando. Non cambiando la mia idea di fondo, no, assolutamente. Cambiando approccio, visione delle cose, diventando attore a 360° della mia vita.
Ecco, odio il capodanno anche perché ci fa diventare delle pedine della storia, convincendoci che non siamo noi a decidere, ma il karma, il fato, la greca tyche, insomma chiamatela come volete, quella cosa lì, ma che comunque arriva a fine anno.
E se ancora non vi fosse bastato, odio il capodanno perché fare paragoni col passato mi fa schifo: se c’è un passato che ricordiamo come bello, è abbastanza inutile, oltre che frustrante, pensare che non ce ne saranno più di così belli. Dovremmo pensare, invece, che ce ne saranno di altrettanto belli, solo che lo saranno in modo diverso.
Che è un discorso, questo, che ho sempre cercato di applicare alla musica, pur considerando alcune vette come irraggiungibili, per tutta una serie di fattori, che vanno dalla line- up dei musicisti, alla qualità dei testi, alla sana rabbia comunicativa che dovrebbe esserci in ogni disco.
Una di queste vette quest’anno fa quarant’anni. Ed è, in qualche modo, legata al capodanno. Perché era un capodanno l’ultima volta che Pino Daniele ci inondò del suo genio musicale visionario.
Capite che per uno che naviga principalmente fra musica d’autore e blues, parlare di Pino Daniele è come andare a nozze. Soprattutto se c’è da parlare di “Nero a metà” , che è uno di quegli album a cui devo un bel po’ della mia formazione musicale, appunto. Lo ascolto, con grande metodicità, almeno una volta al mese, tanto per mettere subito in chiaro le cose. Ecco, questa è una di quelle vette irraggiungibili di cui parlavo sopra. E, dato che è abbastanza inutile parlare “strettamente” dei pezzi, anche perché c’è chi lo ha fatto meglio di me, mi prendo la libertà di parlare dell’album a ruota libera.
C’è tutto, in “Nero a metà” . Ricerca musicale, varietà di generi ed influenze, virtuosismo, testi importanti, resistenza, dichiarazioni d’intenti, manifesti artistici.
Ma non mi sembra il caso di andare totalmente ad canis mentula, l’album non lo merita ed io devo dare sfogo alla mia verbosità.
Cominciamo dal background “storico”: Pino ha circa venticinque anni, viene da due lavori precedenti, “Terra Mia” e “Pino Daniele” , e dall’esperienza come bassista nei Napoli Centrale, insieme a James Senese. E’ facile capire quanto, anche in relazione al contesto storico- sociale della Napoli di allora, l’ambiente di lavoro fosse assolutamente fertile: nella zona della Sanità circolavano, solo per citarne alcuni, Pino Daniele, Enzo Avitabile, James Senese, Corrado Rustici, i fratelli Bennato, Tullio de Piscopo, Joe Amoruso. Praticamente il meglio, fra musicisti, compositori e cantautori, che la musica partenopea lancerà negli anni a venire. Sono gli anni del Neapolitan Power, di gente che racconta la propria città, con tutte le sue contraddizioni. E la racconta usando il proprio dialetto, ma con delle musiche colorate di tante altre tradizioni. E’ una vera e propria rivoluzione, culturale ed artistica. “Napul’è” e “Je so’ pazzo” sono due veri e propri manifesti ideologici, due dichiarazioni di intenti. Fanno parte, rispettivamente, del primo e del secondo album di Daniele, correvano gli anni ’77 e ’79.
E poi c’è “Nero a metà” . A fare da definitivo dazebao della poetica di Pino Daniele, divisa fra le radici popolari e le influenze blues.
Ed a chiudere una trilogia di dischi seminali.
Pieni di rabbia popolare, sfogata nella musica e nelle enormi possibilità espressive che dà.
Prendiamo, ad esempio, “Voglio di più” , che è l’unico pezzo totalmente in italiano dell’album. E’ incazzato, resistente: “Voglio di più di quello che vedi, voglio di più questi anni amari sai che non striscerò per farmi valere, vivrò così, cercando un senso anche per te” . Una cannonata, il cui arrangiamento rarefatto ne accentua il carattere incendiario e sacramente indignato.
Ma l’indignazione non si esprime solo con dei testi rossofuocheggianti. Pino e i suoi musicisti (che vanno sempre menzionati, e sono Ernesto Vitolo alle tastiere, Gigi De Rienzo e Aldo Mercurio al basso, Agostino Marangolo ed Aldo Spina alla batteria, James Senese al sax, Tony Cercola e Rosario Iermano alle percussioni, Karl Potter alle congas, Bruno De Filippi all’armonia ed Enzo Avitabile ai cori) danno vita ad una tanto massiccia introduzione di diverse venature musicali da far impallidire qualsiasi integralista.
Il capolavoro assoluto di queste “mattate” stilistiche è aver detto, chiaramente, che a loro “piace o’ blues” con un pezzo funky che ha una linea di basso spaziale. Ma più che una presenza, a risaltare è un’assenza: il pezzo manca completamente di parte strumentale ed assolo, in mezzo. Praticamente Pino Daniele, un chitarrista universalmente enorme, fa un disco e si prende il lusso, da bluesman enorme, di non fare nemmeno una nota di blues su un pezzo che al blues inneggia. Io sono siciliano, ma questa cosa mi ha fatto comprendere perfettamente cosa significhi “cazzimma”.
La Schitarrata, proprio quella con la s maiuscola, c’è, invece, come riff di “Puozze passa’ nu guaio” . Ed è una schitarrata distorta che scompiglia lo scompigliabile e trasporta nella metà “nera” dell’album, quella elettrica, fatta di contaminazioni profondamente black, di ritmi incandescenti e soli tanto ruvidi e sporchi quanto coinvolgenti.
Sulla stessa scia è “Nun me scuccia’” , che allora fu il primo singolo estratto dall’album, delta blues molto ironico nel testo e cadenzato nella ritmica, che riprende il tema della “cazzimma”, della strafottenza un po’ scostante. Il solo finale, con tanto di wah in evidenza, è la zampata del fuoriclasse, del chitarrista che il cantautore aveva un po’ adombrato.
La stessa atmosfera, da blues malinconicamente ironico, c’è in “I say i’ sto ‘cca” , vero manifesto del melting- pot musicale di Pino Daniele, dal punto di vista musicale e da quello letterario: la lezione di Carosone, con le incursioni di inglese nel napoletano, è stata recepita alla grandissima, la portata rivoluzionaria è grande praticamente altrettanto. Basso e tastiera sorreggono un pezzo nel quale il ruolo di jolly tocca all’armonica, che svisa e si occupa di fornire le venature blues all’atmosfera. E’ uno dei tanti pezzi- manifesto del primo Pino Daniele, e quell’ “I say i ‘sto ‘cca, me ‘mbriaco e c’aggia fa” ha la stessa carica di ribellione di “Je so pazzo, nun ce scassat’o cazzo”.
Il filone più tradizionale, più folk, già intravisto in qualche angolo di “I say i ‘sto ‘cca”, si materializza in “Appocundria” . Delle chitarre spiccatamente mediterranee si fondono a delle percussoni che danno al brano dinamismo. Qua Pino si fa davvero cantore del sentimento partenopeo, con un’altra parola fondamentale quasi quanto “cazzimma”, anzi, visto il recente conio di quest’ultima, certamente di più. L’ “appocundria” non è l’ipocondria, tanto cara ai giorni nostri, è la malinconia. Ma è anche qualcosa in più: è un distacco malinconico, di una malinconia velata ma quasi resiliente. E’ accettazione, sull’orlo del fatalismo, della propria realtà. Insomma, è appucundria, e va bene così.
Il disco segue un’alternanza quasi scientifica di pezzi più ritmati e pezzi più lenti, quasi più intimi. “Quanno chiove” ne è un esempio chiarissimo. E’ un pezzo sognante, quasi sospeso. Sembra quasi di sentire la pioggia, quella sottile ma incessante, quella primaverile, che cade quando c’è il sole, scorrere, e qualcuno che la guarda da dietro il vetro. Guarda la pioggia, aspettandola perché “tanto l’aria s’ha da cagna’”. Ecco la grandezza del Pino Daniele poeta. E poesia è anche il meraviglioso solo di sax di uno veramente nero a metà, quel James Senese che sa tanto di Tammuriata Nera, e che fa definitivamente decollare il pezzo.
Altre atmosfere simili le troviamo in “E so cuntento e’ sta” e “Alleria” , brani dai quali fuoriesce il Pino Daniele più sentimentale, commovente nella sua semplicità, comunque mai banale. Delicato, come delicati sono gli arrangiamenti dei due pezzi, un gran basso risalta nel primo, il pianoforte ed il synth sostengono il secondo. A volte basta poco per fare dei capolavori.
Il vero tocco di genio, l’emblema assoluto della trasversalità dell’album, però, è probabilmente “Sotto o’sole” , un pezzo in cui Pino Daniele canta solo un paio di versi, poi si lancia in uno scat incredibile, sostenuto da una base che strizza più di un occhio al Brasile.
“A testa in giù” fa incontrare di nuovo il funky, stavolta meno ritmicamente incandescente rispetto ad “A me me piac’o blues”, col napoletano. E’ il pezzo che contiene, nel testo, il titolo dell’album. “A testa in giù” e “nero a metà” sono due facce della stessa medaglia, due modi di essere quasi complementari, due posizioni abbastanza estreme, poco ambigue rese note, anche qua, come una specie di manifesto.
L’ultimo manifesto è il ritmo sincopato e sghembo di “Musica musica” , probabilmente, fra dodici pezzi che adoro, quello che più di tutti mi piace, ecco perché me lo sono tenuto per ultimo, volevo godermelo. E’ un manifesto artistico a 360°, non solo per l’arrangiamento, ma anche, e soprattutto, per il testo: “per la musica quanto ho pianto non lo so, ma la musica è tutto quel che ho” . E’, probabilmente, la chiave di lettura dell’intero album, dimostra un tale amore verso la musica da portare a comprendere pienamente la curiosità e, di conseguenza, la varietà di stili dell’album. E dimostra anche una tale determinazione, una specie di “volli, fortissimamente volli” alfieriano declinato alla musica, che dovrebbe essere d’insegnamento non solo in campo musicale.
Insomma, io ho provato a raccontarlo, ma “Nero a metà” è un disco che non può stare nello spazio di un articolo: va ascoltato e basta.
A me riesce sempre a mettere i brividi, ma credo sia un problema mio, in fondo… “ ‘o ssaje comme fa o’core”.
Articolo del
01/04/2020 -
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