Con Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, pellicola inaugurale del 66º Festival di Cannes, ci troviamo difronte alla quarta trasposizione cinematografica del capolavoro del 1925 firmato da Fancis S. Fitzgerald. Il primo tentativo, di riversare su pellicola le vicende del misterioso Jay Gatsby (stavolta col volto di Leonardo di Caprio) e del suo amore incondizionato per Daisy Fay (interpretata ora da Carey Mulligan), l'abbiamo con il film muto diretto nel '26 da Herbert Brenon. Seguirono le prove di Elliot Nugent nel '49 e di Jack Clayton nel '74, con una sceneggiatura curata da Francis F. Coppola. Nessuno di questi film riuscì realmente a catturare l'essenza del romanzo e, sfortunatamente, neanche il Gatsby di Luhrmann centra l'obiettivo.
Sceneggiato da Craig Pearce e dallo stesso regista australiano, questo nuovo adattamento, sembra puntare troppo sull'aspetto e l'impatto visivo, quasi mettendo in secondo piano la caratterizzazione psicologica dei protagonisti, che rimane su un livello superficiale, e l'analisi sociale che era alla base del romanzo. Indubbiamente il cinema di Luhrmann, con la sua orchestrazione di colori, luci e scenografie, è perfetto sotto l'aspetto tecnico. Coadiuvato dalla scenografa e costumista Catherine Martin, il regista ha ricreato le ambientazioni dei ruggenti anni '20, fatti di eccesso e sfrontatezza, in modo impeccabile, mischiandoli con elementi moderni e volutamente eccessivi, classici del suo stile, come dimostra la colonna sonora firmata dal rapper Jay-Z nella quale mischia jazz e hip hop, house ed elettronica. Lo aveva già fatto in Romeo+Giulietta e l'aveva portato al suo estremo in Moulin Rouge!, omaggio alla Belle Epoque parigina di fine '800. Proprio al musical del 2001 fa pensare la sua versione del classico di Fitzgerald. Troppo simili, infatti, le strutture narrative, gli espedienti grafici, o gli effetti di post produzione adottati per la sua versione di Gatsby, per non pensare che Luhrmann si sia ripiegato su se stesso, riproponendo una formula che in Moulin Rouge! fu vincente ma che qui rischia di sembrare ripetitiva. Se nel musical quest'insieme di elementi era accompagnato da un aspetto emotivo forte e coinvolgente, qui si fatica a entrare in connessione con lo spettro delle emozioni provate dai protagonisti.
Quello che manca in questa versione de Il Grande Gatsby è proprio l'anima, la compartecipazione tra chi si trova in sala e i personaggi proiettati sul grande schermo. Proprio come Jay Gatsby crede di essere riuscito a catturare la luce verde del faro situato davanti casa dell'amata, simbolo dell'ambizione a cui tendere e dell'ossessione per Daisy, Luhrmann crede di essere riuscito ad imprigionare nelle sue inquadrature l'essenza degli anni '20 e del romanzo di Fitzgerald, mostrandoci invece uno sterile esercizio di stile.
VOTO: 3/5
Articolo del
25/05/2013 -
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