Evidentemente il marchio della doppia R significa qualcosa nel mondo della letteratura fantasy: una specie di fatato influsso che garantisce una le(t)ale schiera di fans. Quarant’anni dopo John R.R. Tolkien, un nome che non ha bisogno di ulteriori commenti, arriva George R.R. Martin, occhialuto e nerovestito Santa Claus, che dal suo berretto tira fuori Il Trono di Spade, una colossale saga familiare e dinastica (ambientata in un allusivo Medioevo fantastico) da far impallidire Il Padrino.
Martin ama scioccare, ampliare la gamma standard delle emozioni umane. Cambia il concetto di fantasy nella mente della gente, o perlomeno, nella mente dei neofiti del genere: ed è un pugno nello stomaco. Così come Star Trek e Blade Runner sono entrambe opere di science fiction, ma divise da un baratro di diversità, anche Il Signore degli Anelli e Il Trono di Spade, entrambe fantasy, non potrebbero essere più diverse. Alla high fantasy raffinata e letteraria, si contrappone un mondo sporco, gretto, di sangue e lacrime, dove domina un profano e infido “gioco di troni”.
Questo tocco finale è il fulcro della saga (cinque corposi romanzi già pubblicati sui sette previsti), che si ispira apertamente alla Guerra delle Due Rose del ‘400 inglese e all’epopea scottiana di Ivanhoe. Un continente immaginario che ricorda, per forma e culture, la Gran Bretagna; un pugno di famiglie nobiliari golose di potere e un trono centrale che scotta. A minacciare questo già precario status quo due enormi pericoli: i glaciali Estranei dal Nord e un’infuocata donna-drago in cerca di vendetta dall’Est. Sono appunto Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, come recita il titolo completo e corretto della saga.
La mitica rete americana HBO, già autrice di innumerevoli capolavori, si impossessa di questi “Soprano della Terra di Mezzo”, ma i costi esorbitanti per produrre e girare mondi fantasy sono ben noti, e la tv è notoriamente più povera del cinema. La geniale coppia di sceneggiatori David Benioff (La 25a ora) e D.B. Weiss però aggiusta il tiro, trovando il vero perno su cui si regge la serie: i personaggi. Quando un’opera di fiction possiede personaggi così profondi, sfaccettati, reali, che soffrono e muoiono (oh, se muoiono!) non ha bisogno di altro per reggersi. Se si riflette bene dunque, durante la visione, ci si rende conto che la stragrande maggioranza degli episodi sono costituiti da semplici scene di dialogo tra i vari individui. Certo, grandiose scenografie e ambientazioni (quattro set internazionali tra Europa e Nordafrica, un record), ma nulla attrae di più lo spettatore come gli intrighi, le lacrime, i sentimenti forti tra personaggi che seguono il loro Bildungsroman in un mondo brutale fatto di acciaio.
Niente folletti e incantesimi lanciati ad ogni pie’ sospinto dunque: persone vere in un mondo che sembra reale. E chi muore (devastando attoniti fans) da forza a chi vive, in un barbarico ciclo nietzschiano. Se Il Signore degli Anelli era l’antimodernismo per eccellenza e si appellava al lato spirituale e divino dei personaggi, Il Trono di Spade si immerge nel lato oscuro dell’uomo dei Secoli Bui: e un brivido corre nella schiena dell’uomo moderno nel rendersi conto di quanto la distanza spazio-temporale non l’abbia cambiato affatto.
Articolo del
28/11/2013 -
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