Quarant'anni e non sentirli. Il 20 giugno 1975 uscì nelle sale americane uno di quei film destinati a cambiare per sempre il corso delle cose. Perché Lo squalo è un film per la vita, uno di quelli che possono farti decidere cosa vuoi fare da grande. Prendete me, per esempio. Fossi stato più ligio negli studi oggi forse sarei un oceanologo. E il merito sarebbe di Steven Spielberg. Ma invece sono stato uno stronzo e ho fatto tutt'altro. La prima volta che lo vidi avevo sei anni. Lo davano in TV, perché quando uscì al cinema io ero ancora nei “benemeriti” di mio padre e perché negli anni ottanta il passaggio televisivo era ancora una tappa fondamentale nel percorso di diffusione di una pellicola. Del resto il mercato home-video era appena nato, i film non si scaricavano né si guardavano in streaming e “Sky-on-demand” sarebbe stata solo un'incomprensibile locuzione. Lo squalo in realtà era “Jaws” nella (splendida) locandina originale. Raro caso in cui la distribuzione italiana non ha fatto danni nella trasposizione di un titolo americano. Anche perché “fauci” non avrebbe reso. Ad ogni modo, se si dicesse che Lo squalo/fauci è il film perfetto non si sarebbe molto lontani dalla verità. Lo sa bene chi ebbe la fortuna di vederlo al cinema ma anche chi, come me, lo ha visto negli anni almeno una cinquantina di volte tra TV, videoregistrazioni ed edizioni varie in VHS/DVD/BluRay, in lingua originale e non. Lo squalo entrò fin da subito nell'immaginario collettivo e divenne un vero e proprio fenomeno di costume. A pensarci bene è stupefacente che, almeno fino ad oggi, sia stato uno di quei pochi titoli di successo a sfuggire a qualsiasi tentativo di remake, reboot, rehash o che cacchio ne so. Anche perché sarebbe impossibile non dico avvicinarsi ma anche lontanamente entrare nella scia dell'originale. Che ancora oggi sorprende. Pensateci: nel 1975 tra Lo squalo e Moby Dick (il film) non erano passati neanche vent'anni e già Moby Dick al confronto sembrava preistoria. Al contrario, da Lo squalo a oggi di anni ne sono passati 40 ma sembra girato ieri. Il capolavoro di Mastro Spielberg in tutto questo tempo non ha perso un briciolo della sua freschezza originaria e oggi caga ancora in testa a quasi tutti gli squallidi epigoni usciti dopo, da Blu profondo a Open water fino alla trashissima serie dei vari Shark, Shark 3D, Sharknado e compagnia bella. Insomma non c'è CG che tenga. I veri effetti speciali erano quelli ordinari. Perché dovete sapere che Bruce (il nome che la troupe diede al finto animale di scena) era tutto meccanico, si muoveva sott'acqua su dei binari adagiati sul fondo e si alzava ed abbassava grazie ad un ingranaggio comandato a distanza. Potete immaginare le difficoltà connesse allo girare le scene in mare aperto, con le correnti e tutto il resto. Tant'è vero che il film costò una fortuna e la spesa lievitò in pochi mesi come neanche lo stadio Olimpico ai tempi di Tangentopoli. Lo squalo fu un colossal girato come un film indipendente. Un road-movie sull'acqua. Il film con cui s'inaugurò il filone dei blockbuster estivi ad uso e consumo di un pubblico sempre più appiattito e globalizzato. Ma qui c'era sostanza. Non mancava nulla: ritmo, avventura, effetti speciali, scienza, fantascienza, dramma, commedia. E al di là della fantasia cinematografica, quello che si diceva nel film era reale, la finzione era corroborata da dati scientifici che ti facevano venir voglia di conoscere tutto di questi fantastici animali. Io stesso avevo imparato perfino i loro nomi scientifici in latino. Immaginate un ragazzino di otto-dieci anni che invece di giocare con le figurine passa i pomeriggi sui libri di squali e al posto della formazione della Roma ti snocciola nomi come Carcharodon Carcharias e Galeocerdo Cuvieri. E poi la regia, una lezione per schiere di cineasti venuti dopo. Era ancora lo Spielberg “ruspante”, di provincia, quello di Duel e Sugarland Express per intenderci. Dovevano ancora venire le grandi produzioni, gli effetti speciali, E.T., Indiana Jones e la Dreamworks. Per non parlare della colonna sonora di John Williams (lo stesso che scriverà i temi musicali di Superman e Guerre Stellari, solo per citarne due), vale a dire la più famosa e terrificante sequenza di due singole note della storia del cinema, a sottolineare il pericolo incipiente che viene dagli abissi, quella cosa misteriosa che ti afferra e ti trascina sott'acqua, che poi è una delle paure più ancestrali dell'uomo immerso in un ambiente che non è il suo. Ma anche i dialoghi e i personaggi erano accuratissimi. E qui l'origine “letteraria” dello script giocava a favore della pellicola, adattata per il grande schermo sulla base dell'omonimo romanzo di Peter Benchley. Un romanzo ambientato nella prima parte sulla terraferma (con l'isola di Amity in subbuglio per le morti in serie, il sindaco che non vuole chiudere le spiagge, i pescatori in fila per aggiudicarsi la taglia sul mostro, ecc.) e nella seconda in mare aperto, ad acuire il senso di dispersione ed impotenza dell'uomo al cospetto della natura, bella sì ma pure atroce. E come il romanzo anche il film nella prima parte era “affollato”, con un gran numero di personaggi e comparse ad interagire tra loro, e nella seconda solitario e agorafobico, con tre uomini spersi nell'oceano e un animale a dargli la caccia (perché era lui che la dava a loro). Ed era proprio nella seconda parte che si rivelavano i tre protagonisti - un anziano pescatore, uno sceriffo sulla quarantina e un giovane scienziato - che erano altrettanti prototipi del genere umano nonché le proiezioni delle tre fasi dell'età. Che poi la differenza la fecero gli interpreti. Su tutti Robert Shaw, di certo uno degli attori più sottovalutati della storia di Hollywood (ricordate lo “stangato” dalla coppia Redford/Newman?), nei panni di Quint, il cinico ed esperto pescatore, nonché capitano della sua barca ribattezzata “Orca”, che nella vita ne aveva viste di tutti i colori e della cattura del mostro ne faceva quasi una questione personale. Una specie di novello Achab che finirà pure lui inghiottito dai riflussi della sua stessa ossessione. A differenza del comandante del Pequod, però, la sua morte sarà molto più dolorosa e la scena di lui che viene triturato dai denti della bestia è una delle più cruente mai viste sul grande schermo. Gli altri protagonisti erano Roy Scheider e Richard Dreyfuss, altri due che in carriera hanno raccolto meno di quanto meritassero. Il primo vestiva i panni dello sceriffo Martin Brody, colui nel quale lo spettatore s'identificava quasi subito, l'uomo qualunque, il poliziotto buono con vaga propensione all'alcool (secondo un cliché molto in voga nel cinema americano degli anni '70), quello che non sapeva niente di squali ma gli dava la caccia lo stesso perché lui era l'uomo che doveva far rispettare la legge. E la legge vincerà perché sarà lui ad uccidere l'animale al termine di un duello impari e quasi a mani nude. Richard Dreyfuss era invece il giovane e brillante Matt Hooper, un oceanologo inviato ad Amity per aiutare le autorità locali nella cattura del pescione e che a furia di insistere riusciva a convincere Quint ad imbarcarlo sull'Orca insieme a Brody come “zavorra” nell'imminente battuta di cacci... Pardon, di pesca. Dei tre solo Richard Dreyfuss è ancora vivo. Robert Shaw morì d'infarto nel 1978, anno in cui uscì il primo sequel di quella saga al cui successo aveva così tanto contribuito, e Roy Scheider per un tumore nel 2008. Lo squalo vinse tre Premi Oscar. E fu un po’ un'ingiustizia, tanto più che due statuette se le aggiudicò in categorie perlopiù “tecniche” (sonoro e montaggio) e solo la terza fu “artistica”, andando a premiare la succitata colonna sonora di John Williams. A Spielberg quell'anno non diedero neanche la nomination per la miglior regia (ma si rifarà in seguito), e come miglior film trionfò Qualcuno volò sul nido del cuculo...Le dinamiche di Hollywood sono spesso misteriose. Quello che invece non è un mistero è il finale del film (inutile parlare di spoiler perché se in quarant'anni non l'avete mai visto dovrebbero spiegarvi che esiste una cosa chiamata cinema), perché non sia mai che l'uomo perda il confronto con la natura. Anche Hitchcock ne Gli Uccelli l'aveva fatta finire in pareggio. Qui la sceneggiatura si mostrava magnanima e a morire era solo il più anziano e spaccone dei tre protagonisti (beh a qualcuno toccava no ?) mentre portavano a casa la pelle il poliziotto con moglie e figli da sfamare e il giovane con tutta la vita davanti. Sì perché Hooper, a differenza del romanzo, nel film si salvava. Lo avevamo dato per perso nella famosa scena dello squalo che fa a pezzi la gabbia, ma era riuscito a mettersi in salvo sul fondale aspettando tempi migliori per risalire. Fortuna sua che lo sceriffo riusciva ad uccidere il mostro prima che gli finisse l'ossigeno nelle bombole. E allora su a ricongiungersi con l'eroe di giornata. Finalmente il mare era sgombro, niente più denti né pinne. E così tutti e due potevano tornarsene a nuoto alla loro bella isoletta da cui erano partiti. Che se ci si pensa è un po’ una metafora dell'esistenza: tutti in quest'oceano pieno di squali che è la vita abbiamo un'isola su cui rifugiarci. Perché “un'isola è un'isola solo se la guardi dal mare”.
Articolo del
19/06/2015 -
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