Prescott, bambino difficile e ambiguo, è costretto a trasferirsi dagli Stati Uniti alla rustica periferia di Parigi insieme ai genitori: il padre è infatti uno dei delegati che deve occuparsi dei preparativi per la stesura del Trattato di Versailles, tra la Germania e gli alleati. In questa nuova e amena accomodazione gli istinti e i turbamenti del bambino si radicalizzeranno, ed egli inizia una rivolta personale contro tutto ciò che, nella sua coscienza di fanciullo, rappresenta l’ordine costituito e l’autorità.
The Childhood of a Leader in Italia diventa L’infanzia di un capo, in “omaggio” all’omonimo libro di Sartre a cui Brady Corbet si sarebbe ispirato per il suo primo film da regista, e giunge in pochissime sale selezionate grazie alla Fil Rouge Media, dopo gli onori (e i premi) ricevuti al festival di Venezia nella sezione Orizzonti, quando correva l’anno 2015. Nonostante la dichiarazione d’intenti riguardo l’opera di Sartre sia del tutto velleitaria, poiché il film ha davvero pochissimo in comune col libro, che può al massimo aver fornito uno spunto iniziale, l’esordio dietro la macchina da presa dell’attore americano è molto interessante e riesce a sua modo a catturare la confusione, la sensazione perenne di vertigine e smarrimento di chi è cresciuto tra le due guerre: generazioni di scrittori, e artisti in generale, vissuti in quella particolarissima epoca, hanno percepito la loro esistenza come un vivere in bilico tra realtà solo paradossalmente opposte. Corbet è riuscito a prendere questo sentore, a renderlo esasperato tramite la semplicità propria dei bambini, e ad incapsularlo in una bellissima boule de neige.
Siamo nel 1918 e la storia scorre su due binari paralleli: da un lato, sullo sfondo, abbiamo uno scorcio di storia vera, che ci mostra le ceneri della Prima Grande Guerra ancora sul punto di depositarsi e gli sforzi diplomatici che vengono fatti per approntare un trattato di pace, quello di Versailles, che come sappiamo creò in seguito molto scontento, mortificando clamorosamente la Germania sconfitta e gettando così le basi per quel sentimento di rivalsa che stimolò la nascita del regime totalitario nazista. Abbandonata questa atmosfera formale, rafforzata da filmati di repertorio, sull’altro vediamo in modo predominante scorrere, divisa in capitoli che come rintocchi segnano le fasi evolutive dell’ego del piccolo protagonista, la nuova vita di Prescott in una terra straniera dove si parla un’altra lingua, dove il padre a causa dell’importante ruolo politico che riveste è sempre assente, e il bambino è affidato esclusivamente alle cure delle domestiche, della sua giovane istitutrice e della bella ed algida mamma. Sulla scacchiera della vita del figlio, lei è - almeno per quanto concerne l’economia del film - la regina più importante. La donna è infatti una cosmopolita bigotta, figlia di un missionario tedesco, che gestisce la crescita e l’educazione del figlio in modo distaccato e severo, occupandosi più degli aspetti religiosi che di quelli propriamente materni, inviandogli continuamente segnali contraddittori.
Lasciato troppo a lungo “abbandonato” alla cure esclusive e contrastanti delle donne di casa, che finiscono per traumatizzare il giovane ed esacerbare i tratti già ruvidi e dispotici del suo carattere, Prescott, un bambino che non scende a compromessi, che rifiuta ciò che non capisce ma non vuole essere indottrinato, che soffre la solitudine ma ricerca l’isolamento, inizierà, in particolare contro la figura ambivalente della madre, una vera e propria partita al massacro, che ne segnerà tragicamente la crescita in maniera indissolubile. Fondamentale in questa pellicola è la pregevolissima fotografia di Lol Crawley. Grazie al suo magistrale impiego della luce naturale, le poche scene in ambienti esterni riescono a risultare, nonostante le locations bucoliche e campestri, sempre sterili e asettiche, taglienti, mentre negli interni avviene una vera magia per cui le immagini ci vengono rivelate solo in piccole porzioni, preziose e cesellate, rubate ad una tenebra che riveste il ruolo di custode dell’intimità familiare, ma che appare anche ingombrante, opprimente e quasi ostile, un bivio tra rifugio e trappola, un’oscurità che è quasi un tetro presagio, quasi un personaggio al pari degli altri abitanti della grande e fredda casa inaccogliente seppur signorile. Questo encomiabile e riuscitissimo sforzo serve, insieme alla splendida colonna sonora, a cura di Scott Walker, ad allestire una tensione perenne e costante, quasi palpabile.
Le scelte stilistiche e le soluzioni visive e sonore proposte da Corbet per questa sua opera prima sono esteticamente molto appaganti ed esaltanti, purtroppo però la narrazione potrebbe risultare troppo criptica in certi passaggi e poco intelligibile ad uno spettatore non preparato: L’infanzia di un capo è un film che ve accolto e che richiede le attenzioni necessarie e un piccolo sforzo per essere compreso fino in fondo, perché è fatto anche di quello che non ci viene detto e mostrato, ma solo suggerito in chiaroscuro, con un sguardo, una smorfia o un vorticoso movimento di camera.
Articolo del
13/07/2017 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|