Termina con il terzo episodio la super-trilogia più disomogenea del cosmo Marvel. Il primo episodio del Dio del Tuono (ricreato supereroe da Stan Lee nel ’62) era stato affidato a Kenneth Branagh, uomo di teatro prestato diverse volte al cinema con esiti diversi… Branagh, in evidente disagio con i blockbuster, aveva dato il meglio di sé nelle intense scene di dialoghi e nella cura per l’allestimento scenografico, assai meno nell’azione e negli effetti. Il secondo episodio, The Dark World, era finito nelle mani tremanti del televisivo Alan Taylor, anche lui un pesce fuor d’acqua, e i risultati furono assai tiepidi.
Diciamolo: Taika Waititi, un maori, sembra l’unico che mastichi realmente la materia cinematografica, rispetto ai suoi colleghi, in questo terzo episodio Ragnarok. Ma se pensavate che fosse finalmente resa giustizia all’epico e tragico background nordico di crudi miti sui quali il Dio vichingo si basava, sbagliate di grosso. “Ragnarok” sarebbe sostanzialmente l’Apocalisse del mondo pagano scandinavo: e nonostante una sbrigativa e kitsch versione di essa compaia nel film, non abbiamo mai l’impressione di essere di fronte ad una tragedia di proporzioni cosmiche.
Perché Thor: Ragnarok è forse, più di ogni altro, il film in cui la Marvel getta la maschera e svela tutta la propria giocosità post-moderna e la capacità di irridere la sua stessa epicità… Non dimentichiamo che Stan Lee fu soprannominato (da se stesso?) l’Omero del XX secolo, e che Thor sarebbe un Dio… In questi nostri tempi atei, cosa c’è di meglio che ridicolizzare un Dio?
In questo episodio, Thor perde il suo mistico martello per mano di Hela, la Dea della Morte, e si ritrova schiavo/gladiatore su un lontano e colorato pianeta-discarica alieno… Mentre sulla sua patria Asgard, Hela scatena l’inferno (come il suo nome suggerisce), Thor deve subire umiliazioni dal despota alieno noto come il Gran Maestro, e deve cercare di riacquistare la libertà, scatenando una rivoluzione.
Non è un caso che Joss Whedon, grande profeta del Post-modernismo e dell’Irriverenza, abbia elogiato tanto questo film. Il citazionismo estremo da tante pagine di fumetti e non solo, il taglia-e-cuci di diverse idee e situazioni da numerose saghe cartacee, il tono scanzonato, il trattamento clownesco del potere, dell’autorità e della divinità, fanno di Ragnarok una bandiera dei nostri tempi.
Ciascuno in cuor suo tragga le proprie conclusioni. Al di là di ogni possibile critica a questa tendenza o al trattamento dei propri fumetti, la Marvel dimostra molto spesso di sapere confezionare un film accattivante, non importa se effimero. E sa sempre tra l’altro circondarsi di talenti notevoli: Jeff Goldblum, reputato (a ragione) un vero tesoro nazionale americano, è l’eccentrico despota alieno Gran Maestro, Cate Blanchett, somma gigiona, è Hela; il musetto impertinente di Tessa Thompson dà vita a Valchiria, ex eroina-dea divenuta un’alcolizzata schiavista. E dato che nulla è casuale nell’attento impacchettamento di un buon prodotto, finiamo con la musica: a rispecchiare il coloratissimo kitsch di questa avventura alla Flash Gordon (al posto del compianto rock sinfonico dei Queen) c’è nientemeno che Mark Mothersbaugh, dei Devo, con uno spartito brillantemente nostalgico tra sinfonia ed elettronica anni ’80.
Articolo del
17/11/2017 -
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