(intervista co-firmata insieme ad Alessia Pardo)
Ho sempre detto che il fare interviste è una cosa che mi piace molto: nel chiederle, nell’atto stesso di scegliere questo artista invece che quell’altro, c’è una parte di me, spesso e volentieri quasi una scelta di campo. Non solo sul versante artistico, chè l’arte non è mai fine a sé stessa.
Intervistare Giorgio Canali non equivale mai a fare solo una intervista, così come ascoltare un suo album (ma di questo ne parlerò in modo molto più circostanziato fra non molto) non è solamente passare una buona oretta con dell’ottima musica.
Dentro quelle sue canzoni di merda, giusto per citarlo, c’è una capacità di lettura del mondo che non è né nichilista né pessimista: è quella lì e basta, perché è esattamente così che vanno le cose. Parlare della sua musica è un atto dovuto da chi la musica la sente un po’ come compagna di vita.
E poi Giorgio è un outsider, uno di quelli che ti sputano in faccia la qualsiasi, senza farsi grossi problemi. Capirete bene che, in un mondo che fa della democristianità la sua quota identificativa e morale, uno del genere è ossigeno. Ecco perché intervistarlo e parlare di lui è cosa buona e giusta.
Sempre per riagganciarmi all’inizio, c’è anche una parte di me, giusto per il fatto di riuscire a scorgere una qualche affinità, anche nel chiedere o meno collaborazioni (mi sembra oltremodo chiaro che sia Giuseppe a scrivere): se lo faccio, io, un vero lupo solitario/ cane da caccia quando scrive, significa che nell’altro del caso c’è non del buono, ma dell’ottimo. Ecco, in questo caso, Alessia, già solo per il fatto di essersi interessata a Giorgio Canali, meritava più di una considerazione, ecco spiegata anche la co- firma. In più si è dimostrata una collega (è molto raro che utilizzi questa parola, ma se lo faccio è una garanzia di competenza) perfetta per questa avventura, per cui…
Adesso è tempo di lasciarvi all’intervista.
Qualora non vi andasse di leggerla, beh… “Giorgio lo dice sempre, fatevi fottere!”
Da produttore hai collaborato con nomi di progetti importanti della scena alternativa italiana come Le Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus, Tre Allegri Ragazzi Morti, Nobraino, Afterhours, Marlene Kuntz, Bugo e via dicendo. Sicuramente ti sarà capitato di suonare con loro o di seguire le band nei tour. So che per te il lato concertistico della performance è quasi vitale, un atto liberatorio. Come sono cambiati i nostri live da quelli di Giorgio Canali on stage con i CCCP, CSI e PGR?
Sono cambiati nel senso che sono spariti! (ride) No, quest’estate mi è capitato di aver fatto un po’ di concerti Rossosolo, con la gente seduta, le mascherine e le regole applicatissime, non c’è stato un caso in cui queste regole non siano state applicate, però ci hanno chiuso di nuovo. Son cambiati in quel senso lì. Poi come qualità, semplicemente credo di avere un pubblico molto aggiornato, il mio pubblico ha tra i venti ed i quarant’anni, c’è qualche vecchio come me, che è ancora barricato nell’idea di lotta di trent’anni fa, che puntualmente se ne va deluso. Da quel punto di vista lì non è cambiato un cazzo, proprio perché il mondo non cambia, è sempre quello lì. E se qualcosa è cambiato, è cambiato in peggio, miglioramenti non ce ne son stati.
E con il progetto Rossofuoco? Preferisci i live acustici firmati Giorgio Canali & Rossotiepido o il rock elettrico di Giorgio Canali & Rossofuoco?
Mah, Rossotiepido è una version di qualche anno fa, eravamo in duo o in trio, senza batteria e con una scaletta che aveva pezzi acustici e pezzi elettrici. La formazione Rossosolo mi permette di fare anche ballate strappamutande, proprio perché non ho nessuno dietro, mentre invece Rossofuoco già dal nome fa capire che i pezzi più lenti e più calmi non sono immaginabili, ecco. Però in entrambi i casi, sicuramente, una cosa che non manca mai è il rock’n’ roll.
1999: Verdena, album meraviglioso e suono impreziosito dal tuo lavoro di ingegnere del suono e produttore. Come sono arrivati a te e come ricordi in generale la lavorazione al loro disco d’esordio?
Io li avevo sentiti perché qualcuno mi aveva fatto il loro nome mi aveva portato una loro cassetta audio, forse addirittura era un live registrato, e mi erano sembrati molto interessanti. Poi ad un certo punto mi chiamarono dalla Polygram, oggi Universal, e mi dicono: ‘Devi venire a fare due chiacchiere, abbiamo un gruppo che ci piacerebbe producessi tu, visto che con il rock ci sai fare, ma non possiamo dirti nulla per telefono perché non vorremmo mai una fuga di notizie” e tutte quelle menate lì. Io fermai subito il mio interlocutore e gli dissi “Guarda, ti dico subito che se non sono i Verdena o gli Ulla (la bambola che ti trastulla) è inutile che venga a Milano perché non produco cose che non mi piacciono’, non mi feci problemi perché non è che avessi tutto questo rapporto idilliaco con loro. Piccolo silenzio dall’altra parte del filo… poi mi rispondono che sì, si trattava dei Verdena: mi chiesero “Come fai a conoscerli?” “Eh, perché sono le uniche due cose interessanti che ci sono in giro, io sto attendo, solamente degli idioti come voi non si rendono conto di qualcosa se prima qualcuno non ve lo dice!”. Poi li andai a vedere in un club minuscolo fra Bergamo e Brescia, faceva cagare. Prima di registrare l’album, per conoscerci meglio e capire come funzionavano, ho fatto aprire ai Verdena qualche mio concerto, saranno state sei/ sette date, una di queste sicuramente al Fuori Orario, a Parma. Me lo ricordo perché qualche anno dopo mentre ero in tour in quel club con Le Luci Della Centrale Elettrica, uno dei proprietari mi chiese che fine aveva fatto quel gruppo fighissimo con una bambina che suonava la batteria e una ragazza al basso che aveva aperto la serata prima di me… non voleva credere che fossero i Verdena!
E della scena discografica italiana? Qualche nome tende a snaturarsi puntando, quasi naturalmente, al mainstream. Non ho ben chiaro se questo sia il caso degli Zen Circus ma se puntano a questo, lo stanno facendo davvero bene: hai saputo del disco uscito qualche settimana fa? Davvero un bel lavoro, mantiene una certa integrità.
Nono, col cazzo che ascolto gli Zen! Loro non ascoltano me ed io non ascolto loro, è una ripicca! (ride) Mah, del nuovo album avrò ascoltato un paio di pezzi e non mi hanno esattamente entusiasmato, ma devo approfondire. Poi ti posso dire che non è assolutamente il loro caso, se qualcuno sta cominciando a pensare che si possano vendere o che possano diventare più commerciali per puri fini di pubblico o classifica, sta prendendo un granchio enorme. E ti dirò di più: il passaggio al Festival credo lo testimoni abbastanza bene, quando portarono un pezzo che non aveva ritornello ed era pieno di parole serratissime. Poi certo, è chiaro che un pezzo come “L’anima non conta” è più radiofonico rispetto ad altre robe che hanno fatto, ma anche quello lì è un pezzo incredibile, non c’è nulla da dirgli.
Ultimo flashback! 1990: EPICA, ETICA, ETNICA, PATHOSultimo disco dei CCCP che vede in formazione anche Giorgio Canali. So che hai conosciuto i CCCP in Unione Sovietica. Mi racconti in che modo e se c’è stato qualche aneddoto in particolare che li abbia di botto portati a dire: “ok, bella. Sei dentro!”
Non ricordo niente, roba di quarant’anni fa, cazzo! (ride) In realtà è anche divertente perché Epica Etica Etnica Pathos lo registrammo a Villa Pirondini, praticamente qui dietro, pochi chilometri da casa mia! No, nacque tutto così, noi eravamo in Russia, io allora con i Litfiba, ed a fine tour io, Gianni, Magnelli e la buonanima di Ringo De Palma andammo con i Cccp. Cercavano qualcosa di diverso, Massimo voleva un suono più “vero”, e credo si fosse anche rotto i coglioni di dover programmare drum- machine e robe simili. Noi quattro facevamo esattamente al caso loro.
Su “Eravamo noi” parli di “un altro Goldstein da odiare”, e quasi ribalti/ riabiliti il Grande Fratello, mettendolo fra le vittime.
Beh, quello lì è il frutto del famoso “minuto d’odio” di Orwell. Ed è, in effetti, la situazione che viviamo adesso, la ricerca forsennata di qualcuno con cui prendersela, di un nemico comune da trovare. Solo che fino a qualche tempo fa spuntava un nemico ogni tanto, praticamente quelli di “Inutile e irrilevante”, mentre negli ultimi mesi ne è spuntato quasi uno a settimana…
Tantissime le citazioni, mai alla lettera, dei grandi della musica italiana: da Battiato a De Gregori, diverse quelle di Guccini ma ho una curiosità sul pezzo Wounded Knee in cui dici: Vieni a sentire la grandine sui tetti di eternit il rumore che fa. Vasco Brondi nel brano La Gigantesca scritta Coop, raccolta nel primo disco curato da te, recita: E fammi i tuoi discorsi metafisici sui tetti di eternit degli anni ’80, oltre naturalmente alla parte urlata che fa: E i CCCP che non ci sono più lasciando miseramente spazio alla Gigantesca scritta COOP che svetta nel buio. Tu invece in Wounded Knee parli dell’ Imperdibile e unico tramonto della civiltà facendo, peraltro, riferimento all’opera di Goyadel Sonno della ragione che genera mostri. E’ un caso o si tratta di un piccolo regalino che hai voluto fare, fra i tanti, anche a Vasco Brondi?
Guarda, non ci avevo fatto caso, ma mi fa piacere che ci sia un richiamo a Vasco, ti ringrazio di questo: lui mi ha citato tante volte, per una volta che lo faccio io ci può stare! (ride)
In realtà quel passaggio lì parla proprio dei tetti di eternit, che non sono solo degli anni ’80, ci sono da allora, ci sono ancora oggi e nessuno ne parla. L’amianto è uno di quei problemi che ci portiamo dietro veramente da quarant’anni ed anche di più, le sue esalazioni fanno annualmente un numero di morti enorme, eppure è uno dei tanti problemi rimandati sempre a data da destinarsi perché nel frattempo arriva sempre qualcosa di più urgente. Quanto a Goya, sì, ho notato che in tutti questi anni praticamente nessuno aveva mai citato quell’opera, prima ho fatto una ricerca, come mi capita di fare per buona parte delle idee che mi frullano in testa, per accertarmi che fosse così. Ricordavo bene, così l’ho inserita.
A proposito di citazioni… mi sembra di capire che ti preoccupi la stessa morte che preoccupava De Andrè, quella psicologica, morale e mentale, più che quella “fisica”
Beh, direi di sì. Ed ancora di più mi preoccupa quella che azzera le reazioni e la reattività. Ed anche il pensiero critico…
Sei riuscito nel dedicare una canzone all’amore su un pezzo che nel titolo ha un porcone criptato, ecco. Chi ti conosce più superficialmente potrebbe non vederti esattamente come un cantore dell’amore. E invece, spostando il piano del ragionamento, cantare l’amore lo consideri come un ulteriore atto politico?
Beh, se avessi messo il porcone esteso nel titolo sicuramente avrei trovato qualche bigotto di merda a rompermi i coglioni e tentare di farmi togliere il pezzo dal disco. Comunque sì, cantare l’amore è sempre un atto politico, l’amore in sé lo è. Non ti innamori di qualcosa che non ti piace, se ti innamori di qualcosa o di qualcuno è anche perché ti senti vicino a quella cosa o a quel qualcuno. Ti innamori di una idea, per dire… se non è un gesto politico quello!
Qualche settimana fa, sempre da queste pagine, ovviamente, scrivevo di Fabrizio Tavernelli, che dovresti conoscere, e del suo ultimo album: ho letto in giro che tutti lo hanno definito “distopico”, quando in realtà è “solo” molto molto realista. E’ la “liturgia del pensiero unico” che riesce a far passare uno sguardo lucido per un qualcosa di visionario, ed è una situazione che ritorna, guarda caso, nei periodi più banalmente progressisti, successe anche a Leopardi col positivismo. Perché fate tanta paura?
Con Fabrizio ci vediamo almeno due volte a settimana per far l’aperitivo, il suo disco lo conosco molto bene, ed è splendido! Poi lui è uno veramente forte, fa cose anche difficili ma se ne sbatte. In confronto a lui io sono una puttana, molto più facile da sentire! (ride) Mah, guarda, non credo che facciamo paura, anche perché c’è una via molto facile per non farci prendere sul serio, e la stiamo vedendo in questo periodo, che è quella di ridicolizzare chi mette in discussione il sistema, ed è uno scudo che lo stesso sistema si è costruito. Io mi sono preso del complottista, Fabrizio si sarà preso del paranoico per quello che abbiamo messo nei nostri lavori, ma se vai a vedere questo modo di agire è un perenne corso e ricorso storico: ricordo di quando Cossiga ammise come se nulla fosse che negli anni ’70 per demolire l’estrema sinistra bastò far passare tutti per criminali. Stiamo vivendo la medesima situazione, e mi dispiace che siamo in pochi a comprenderlo.
Hai detto che hai tentato di lasciar fuori la situazione virus dall’album, ma che non c’eri riuscito. In realtà sei riuscito comunque a raccontare una realtà legata sì a doppio filo col tempo che stiamo vivendo, ma che, purtroppo, sarà valida anche fra qualche anno…
Ma certo che non ci sono riuscito! Ho cominciato a scrivere i pezzi dell’album che ero incazzatissimo, vedevo un circostante fatto di tanta gente pronta a stare su un piede solo se un qualche dpcm glielo avesse ordinato, senza farsi nessuna domanda. L’idea di fondo era davvero di fare come se non ci fosse nulla, se non stesse accadendo nulla. Poi però mi sono anche reso conto che mi giravano veramente i coglioni nel vedere quella situazione lì, quell’assoluta mancanza di pensiero critico verso ogni provvedimento. Il coprifuoco alle 22 viene direttamente dal Cile di Pinochet, di cosa stiamo parlando? E’ stato impossibile non lasciarsi trascinare dall’incazzatura, ed ho finito per metterci dentro tutto quello che c’è, sì qualcosa che probabilmente sarà valida anche fra qualche anno.
Rimanendo, grosso modo, su “Requiem per i gatti neri”: canti la notte, uno dei topoi letterari per eccellenza, rendendola, e cito nuovamente Brondi, una “prateria infinita, piena di pericoli, strapiena di vita”. Che rapporto- poetico e non- hai con la notte?
Eh, non dormo, fai un po’ te! (ride) No, dormo davvero poco, ma anche perché spesso mi bastano poche ore di sono racimolato fra le varie pause per essere al 100%: sono uno abituato al movimento, dormire non fa per me. Però so che i miei sogni e soprattutto i miei incubi, non necessariamente notturni, si trovano dentro quest’album praticamente in ogni pezzo.
Sempre per rimanere in tema, secondo te chi scrive canzoni vive una sorta di “realtà aumentata”? Perché hai definito, giustamente, “Dodici” come il seguito di “Undici” del disco precedente. Però se ribaltiamo la situazione, e facciamo diventare “Undici” il prequel di “Dodici”, andiamo a scoprire che molte cose le avevi quasi predette…
E’ un discorso quasi speculare a quello di poco fa. Anzi, ne è proprio la conferma! Non sono menate da sessantenne un po’ paranoico. O, quantomeno, non solo quelle. No, è così e basta. E non è neanche il discorso che si è profetici o cazzate simili. Basta un po’ di attenzione al circostante, tutto lì…
Vorrei leggerti un frammento di un sonetto secentesco di un certo Ciro di Pers, poeta friulano di impronta marinista, attivo in pieno secolo Barocco che recita:
Mentre il metallo concavo percuote,
voce funesta mi risuona al core; […]
Perch’io non speri mai riposo o pace,
questo, che sembra in un timpano e tromba,
mi sfida ognor contro all’etá vorace.
In Proiettili d’argento, canti:
Batte il tamburo veloce e cerchiamo nell’aria segnali di vita,
nel vento una voce, lontano grida che non è finita ma noi non abbiamo più nessuna voglia di sognare, che sognare vuol dormire e, di questi tempi, chi si addormenta muore […]
Ciro di Pers, sempre nel Seicento, continua:
E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba,
affretta il corso al secolo fugace,
e perché s’apra, ognor picchia alla tomba
Per concludere, tu dici:
Batte il tamburo veloce, la fine è all’orizzonte, lo senti il suo canto, batte il tamburo veloce, che anche qui l’orizzonte non è poi così tanto lontano
Soggetto del sonetto di Ciro di Pers è questo ordigno che sarebbe senz’altro l’equivalente dell’orologio moderno che diventa simbolo della morte inevitabile. Noti una certa somiglianza con Il tamburo veloce che batte di cui parli tu? Cos’è il tamburo?
Non conoscevo il frammento di questo poeta, e mi colpisce abbastanza, è molto bello. Il mio tamburo è la guerra, così come credo anche quello di Ciro di Pers, eh. Certo, ci potrebbe essere una sorta di ambiguità col tempo, le due cose potrebbero anche essere sovrapponibili, ma il mio è sicuramente la guerra.
L’ultima traccia di Venti, Rotolacampo è un omaggio a Bob Dylan. Hai curato la produzione di Mattia Prevosti, giovane cantautore di Varese che debutta con un disco interessante Le gabbie dei tori che contiene la versione di Dylan, Shelter from the Storm tradotta in italiano e un arrangiamento che non lasciano per nulla indifferenti. Sinceramente, è stata un’idea di Prevosti o hai a tuo modo contribuito?
No, Mattia, che è uno bravo sul serio, si è presentato con questa manciata di canzoni, fra cui quella traduzione lì, che secondo me è uno degli adattamenti più riusciti degli ultimi anni, ma non c’è stato bisogno di sistemare praticamente nulla. Giusto qualche parolina, ma sarebbe andata benissimo anche senza aggiustamenti, lì è venuta fuori la mia maniacalità! (ride)
La fragilità è qualcosa di dinamitardo come le rivoluzioni?
Boh. Davvero, non lo so, non mi vedo come una persona fragile. Non esclude che potrebbe, ma sicuramente non sono la persona più indicata per dirlo!
Leonard Cohen diceva di non essere pessimista perché il pessimista ha paura della pioggia che lo bagnerà, mentre lui era già zuppo fino alle ossa. C’è più di un velo di malinconia in questa frase, ed a proposito di questo, qualche tempo fa partì un thread molto interessante sul ruolo della malinconia, di quell’atmosfera “blu”, alla Nick Drake, nelle canzoni. Tu che ne pensi?
Penso che stiamo parlando di due morti, e che dovremmo cominciare ad evitare di santificarli o prenderli come unica via ed unica verità. Nonostante abbiano inciso dei capolavori, bisogna sempre considerare che non esiste una via unica per scrivere una canzone. Così come non bisogna partire dalla menata dell’animo tormentato per trovare un grande autore: la malinconia fa parte di ognuno di noi, poi- come in tutte le cose- c’è chi riesce a tirarla fuori in modo predominante quando scrive i pezzi e chi invece preferisce metterci dentro altro, altre parti di sé stesso, evitando quella malinconia o magari solo sfiorandola.
Una domanda a cui tengo tanto: il 2020 è stato anche l’anno dell’anniversario della morte di Ian Curtis, frontman e anima deturpata dei Joy Division. Per il quarantennale esce Love Tore Us Apart progetto tuo, di Angela Baraldi e Steve Dal Col. Ci tengo a congratularmi personalmente e a chiederti perché proprio i Joy Division?
Beh, grazie! Quel progetto lì è qualcosa di stranissimo: senza basso e senza batteria, con una chitarra baritona, una vera sfida. Nacque tutto qualche anno fa, era il trentennale della morte di Ian Curtis, e ci chiamarono da Reggio Emilia, mi sembra, Angela era già lì, e ci chiesero di fare qualcosa. Quest’anno avremmo dovuto riprendere, cazzo. Poi, sul perché proprio i Joy Division… beh, sai, è roba nostra, ascoltavamo quelle cose lì, i Joy Division ci fecero capire che non dovevi essere necessariamente un virtuoso dello strumento per poterti permettere di salire su un palco.
Voglio farti l’ultima di cui so la risposta, ovvero che sei senza alcun dubbio immortale, ma sento il bisogno di sentirlo pronunciare da te: Hai paura di morire?
No, sono immortale! (ride) Convincersi di certe cose aiuta, eh…
Articolo del
07/01/2021 -
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