Da ormai diverso tempo sto riscontrando nel Jazz, e nelle tante e varie declinazioni di genere, il luogo ideale ove scorgere quel riflesso inedito e splendente, quel piccolo risvolto di bellezza da congelare nel tempo. Una sperimentazione e freschezza che sempre più sento come bene primario in un universo vasto e complesso come quello musicale.
Ecco perché, dopo aver ascoltato un album ricco di spunti come “Il Labirinto Dei Topi” di Francesca Remigi (batterista e compositrice) nel suo progetto Archipélagos, ho sentito la necessità di parlare con l’artista ed esplorare il mondo al di là, dei brani, delle parole, di chi materialmente ha espresso in suono quei concetti dapprima astratti. In questo intrigante debutto, uscito lo scorso 5 gennaio 2021 per la Emme Record Label, e registrato al Tube Recording Studio tra il 13 ed il 14 luglio del 2020, la Remigi dà vita ad un interessante “concept” musicale, il quale, attraverso stili sensibilmente differenti e tematiche d’attualità (i brani vedono difatti coinvolti nomi illustri in campo sociologico e storico come William McNeill, Zygmunt Bauman, Noam Chomsky, Roberto Saviano, e Samuel Huntington) coinvolge l’ascoltatore in una riflessione interiore che viaggia di pari passo con l’appagamento sonoro.
E’ dunque un vero piacere per me avere la possibilità di guardare dall’alto la mappa di questo dedalo di brani grazie alla voce di Francesca, e ripercorrere insieme quello che è stato il percorso che l’ha portata a alla creazione di questo intricato ed affascinante “Labirinto Dei Topi”.
Ciao Francesca, benvenuta su Extra! Music Magazine. Il Labirinto Dei Topi vede la luce all’inizio dell’anno che, si spera vivamente, possa portarci fuori dalla pandemia che ha così fortemente condizionato il 2020. Come hai vissuto questa inedita situazione e quale è l’insegnamento più grande che hai saputo trarne?
Devo proprio ammettere che questo 2020 ha messo a durissima prova la mia pazienza e capacità organizzativa. È stato un anno di luci ed ombre, pieno di grandi sorprese e soddisfazioni, ma anche di forti delusioni e di ansie esistenziali. Durante la prima ondata, avere così tanto tempo a disposizione sembrava inizialmente elettrizzante: ho potuto ultimare la tesi di master in tranquillità e laurearmi (presso il Koninklijk Conservatorium Brussels), ho avuto occasione di dedicarmi alla lettura, allo yoga, e all’ascolto di nuova musica intrigante. D’altro canto, tra concerti cancellati e lezioni sospese, ho visto le mie entrate azzerarsi, le preoccupazioni per la mia famiglia lontana aumentare, e persino l’ispirazione artistica e la voglia di fare mi hanno pian piano abbandonata.
Anche il processo di realizzazione del disco è stato tutt’altro che scorrevole: onestamente non ricordo quante volte abbiamo tentato di riprogrammare le registrazioni presso il Tube Recording Studio (Roma) durante la prima ondata, ma so solo che ho avuto qualcosa come 25/30 voli cancellati o modificati. Tuttavia, sapendo di aver intrapreso una vera e propria odissea dal punto di vista organizzativo e logistico, mi ritengo soddisfatta del risultato ottenuto con questo nuovo album: sono felice di non aver gettato la spugna e di aver continuato a cercare soluzioni alternative per raggiungere il mio obiettivo. Infatti, oltre al “non pianificare a lungo termine” e al “vivere alla giornata", durante questo particolare periodo storico ho anche abbracciato la filosofia del “non tutto vien per nuocere”: sono convinta che, nonostante le terribili conseguenze in campo economico e sanitario causate dal covid, questa situazione abbia concorso a stimolare la capacità umana di adattamento e la sua abilità di problem solving.
Specialmente durante un momento di profonda crisi come questo, l’uomo è chiamato a reinventarsi e trovare modalità di azione alternative ma sempre efficaci. Personalmente, ho tentato di investire questo apparente “tempo morto” nello studio: da settembre infatti frequento un master presso il Berklee Global Jazz Institute che mi ha obbligato a far fronte ai miei deficit nel campo della music technology e della music production. Ho imparato a registrare e mixare musica, ad utilizzare diversi software di produzione musicale digitale, a post-produrre e a editare i miei brani, e ad utilizzare programmi di video making e di grafica. Abilità su cui non avrei MAI investito in una situazione di vita “normale”, ma che mi stanno ripagando notevolmente. Ovviamente non vedo l’ora di poter partire per l’America, ma sono convinta che, impiegando il mio tempo in maniera intelligente e produttiva, anche questo difficile periodo non sarà tutto da buttare.
Qual è il tuo primissimo ricordo legato alla musica?
Ho avuto la fortuna (o sfortuna) di essere nata in una famiglia di musicisti, pertanto ho sempre vissuto in un ambiente dove la musica accompagnava tutte le mie giornate. Ricordo mio padre costantemente immerso nello studio della chitarra classica durante le lunghe mattinate d’inverno; io e la mamma assistevamo a tutti i suoi concerti con il suo ensemble di chitarre “Quartetto Villa Lobos”, e alle prove organizzate a casa con il suo trio (che includeva mio zio Marino Remigi al clarinetto). Ricordo il nonno, che da bambina amava mostrarmi la sua vasta raccolta di trombe, collezionate durante i suoi migliori anni trascorsi esibendosi per l’orchestra sinfonica della RAI di Milano.
Nelle occasioni speciali mi portava con lui sul campanile della chiesa del suo paese, dove tuttora suona le campane nei giorni di festa. La mamma e la nonna erano invece le mie coriste: trascorrevamo pomeriggi a ballare e a cantare a squarciagola le mie canzoni preferite (a 4 anni c’erano già i Beatles e i Queen nel mio cuore), e quando eravamo fortunate, la mamma ci intratteneva con brani di Ravel e Debussy eseguiti al pianoforte. Ricordo che a 6/7 anni, quel doppio disco Live at Wembley ’86 dei Queen iniziava già a gracchiare nel mio vecchio lettore cd da tanto che l’avevo ascoltato. Lo considero tuttora un capolavoro. Ho un vividissimo ricordo del primo concerto jazz della mia vita: The Pat Metheny Group in Puglia all’età di 4/5 anni. Seduta sulle spalle di mio padre, osservavo incuriosita questo incredibile chitarrista sorridente e ricciolone dalla sgargiante camicia a fiori, che faceva delle facce alquanto bizzarre mentre suonava.
Mio padre, da buon chitarrista, è sempre stato un fan sfegatato di Pat Metheny (come io lo sono diventata in seguito di Antonio Sanchez); abbiamo ancora tutti i suoi dischi a casa, e da bambina li ascoltavamo in loop per giornate intere: Letter from Home è sempre stato il mio preferito. Un’altra pietra miliare della mia infanzia è stato un concerto della big band con la quale si esibiva mio padre, durante il quale ho realizzato di voler suonare la batteria: il batterista sembrava infatti divertirsi talmente tanto che ho all’istante abbandonato le lezioni di chitarra per fiondarmi sui tamburi all’età di 5 anni.
Archipélagos è un nome che richiama alla mente un insieme di isole, che immagino vaste e misteriose tanto quanto i musicisti che le abitano, i quali danno poi vita al suono multiforme che abita le 8 tracce de “ Il Labirinto Dei Topi”, in quello che ho percepito come un riuscito tentativo di giungere ad un linguaggio “nuovo”, tra improvvisazione, classicismo e modernità. Come è nato questo progetto e chi sono gli altri componenti del gruppo?
Archipélagos è un progetto nato a Bruxelles nell’aprile 2019, con l’intento di sperimentare un mio nuovo repertorio costituito da brani ritmicamente complessi e ispirati ai miei studi nell’ambito della musica carnatica indiana. Già da qualche anno collaboravo stabilmente con la sezione ritmica formata dall’olandese Ramon van Merkenstein al contrabbasso e dal pianista francese Simon Groppe, alla quale ho deciso inizialmente di affiancare il clarinettista Federico Calcagno, virtuoso musicista altrettanto interessato al mondo della musica carnatica e della musica classica contemporanea. Nell’estate 2019, durante una residenza artistica presso il Banff Centre for the Arts and Creativity (Banff - Canada) , ho avuto la fortuna di collaborare con un formidabile trombettista australiano di nome Niran Dasika, che sarebbe venuto in Europa per qualche mese all’inizio del 2020.
Ho preso subito la palla al balzo ed organizzato un tour e la registrazione dell’album presso il Tube Recording Studio per il marzo 2020, successivamente alla vincita del contest All You Have To Do is Play 2019, lanciato dall’etichetta Emme Record Label. La cantante Claire Parsons si unisce alla band nel Novembre 2019, rivoluzionando totalmente le sonorità del gruppo: Claire non solo introduce nuovi elementi effettistici legati all’elettronica, creando così atmosfere aleatorie e sognanti, ma riporta la musica sul piano dell’umano, sensibilizzando l’ascoltatore tramite testi dall’efficace potere evocativo e dal profondo impegno sociale. Infatti molte delle composizioni proposte evidenziano e condannano alcune problematiche controverse del periodo storico in cui viviamo (come la liquidità delle relazioni sociali, l’onnipotenza di multinazionali e Social Media, l’evoluzione della criminalità organizzata e del mercato delle armi…), prendendo spunti di riflessione dagli scritti di alcune delle grandi personalità dei nostri tempi. Il nome della band Archipélagos vuole rappresentare un tentativo di aggregazione di individui tramite la musica, e di sperimentazione di percorsi di denuncia sociale alternativi tramite le arti.
Molto affascinante è l’idea di creare un dialogo con alcune grandi personalità del 900 e degli anni 2000 come Noam Chomsky o Saviano (splendido in questo senso il dialogo serrato in “Gomorra” ed il modo in cui la musica segue e dà enfasi alle parole), attraverso cui trattare temi di rilevanza sociale, economica, filosofica. Personalmente amo quando la musica tenta di dialogare non solo con le emozioni, ma anche con la filosofia e la sfaccettata realtà che la società moderna implica. Lo stesso titolo, “Il Labirinto Dei Topi”, fa riferimento ad una sorta di esperimento scientifico in cui delle piccole cavie cercano disperatamente l’uscita da un dedalo infinito, una metafora azzeccata visti i nomi e le tematiche che vengono toccate dai vari brani. Mi piacerebbe dunque conoscere attraverso le tue parole quale è stata la genesi e in che modo avete lavorato per arrivare ad un risultato così sorprendente.
Non ho mai particolarmente condiviso il concetto di arte fine a sé stessa: ritengo invece che, soprattutto in momenti di crisi come quello che stiamo attualmente vivendo, il compito dell’artista sia quello di offrire un’interpretazione alternativa riguardo tematiche attuali fortemente dibattute, e offrire all’ascoltatore una nuova chiave di lettura della realtà contingente. L’arte, se ben strutturata, può diventare una potente coscienza sociale, in grado di portare alla luce problematiche calde dei nostri tempi e sensibilizzare l’opinione pubblica. Sono sempre rimasta folgorata dal prodotto di voci artistiche che avevano davvero qualcosa da dire, andando al di là della mera rappresentazione formale, indipendentemente dalla modalità rappresentativa impiegata. Con il mio album “Il Labirinto dei Topi” ho cercato di fare lo stesso. Sono sempre stata una persona curiosa e socialmente impegnata, appassionata di storia, di politica e di filosofia.
Ho iniziato a leggere alcuni lavori di Huntington, McNeill e Chomsky studiando relazioni internazionali durante il primo anno di università di Interpretariato, che ho successivamente abbandonato per dedicarmi completamente alla musica. In quest’ultimo ambito, ho spesso percepito una spropositata attenzione alla tecnica e alla “forma”, che doveva soddisfare le aspettative di insegnanti e colleghi, e in qualche modo rientrare in una serie di parametri impliciti per ottenere riconoscimenti. Il contenuto e le sue modalità di espressione personali erano invece argomenti assenti dalla didattica musicale (soprattutto da quella italiana). Andare a vivere all’estero mi ha estremamente aiutata a sperimentare metodi compositivi non convenzionali e a costruire la mia identità di artista, riversando completamente le mie conoscenze, i miei valori e la mia personalità nella musica che scrivo. Solo rimanendo fedele a me stessa e a ciò in cui credo, ho ultimato la creazione di un elaborato autentico e personale che ritengo mi rappresenti nella mia totalità.
Penso che aggiungere qualsiasi tipo di contenuto alla musica la umanizzi notevolmente, aiutando a suscitare maggiore interesse e attenzione nell’ascoltatore “medio”, a cui probabilmente poco importa di tecnicismi o di raffinati artifici compositivi. Nel caso de “Il Labirinto dei Topi”, la rappresentazione musicale di particolari tematiche socio-politiche non avviene in maniera casuale, bensì seguendo specifiche logiche di scrittura musicale che richiamano particolari immagini e concetti. Riprendendo l’accenno fatto al singolo “Il Labirinto dei Topi”, questo brano ad esempio non è altro che la visualizzazione di un esperimento sociologico eseguito sui topi e raccontato dal filosofo Zygmunt Bauman nel suo libro Società Sotto Assedio. L'introduzione dai toni solenni, che rappresenta un chiaro rimando alla Marcia Funebre op.35 di Chopin, descrive la struttura maestosa e impenetrabile del labirinto e l’ingrato esperimento a cui i topi stanno per essere sottoposti.
Le parole della cantante Claire Parsons aiutano a chiarire e ad identificare i vari passaggi dell’esperimento. L’esposizione del tema è aperta da una sezione di basso e pianoforte, le cui linee melodiche intersecanti e apparentemente prive di senso ritmico nascondono la pulsazione e descrivono l’architettura di un enigmatico labirinto, a prima vista impossibile da attraversare. Segue il contorto tema suonato all’unisono da tromba e clarinetto, che rappresenta l’irrazionale movimento dei topi all’interno del labirinto, alla disperata ricerca di una via d’uscita. In questo brano, numerose sono le tecniche ritmiche adoperate provenienti dalla musica carnatica del sud dell’India, emblema del rigore e della complessità di strutture di controllo e di oppressione di massa che dominano la nostra realtà: come i topi, anche gli uomini potrebbero trovarsi intrappolati in schemi sociali prestabiliti, per cui la condizione umana viene dettata da una pianificazione strutturata e sconosciuta proveniente dall’alto. In questo scenario apocalittico, la musica e le arti possono rappresentare uno strumento di consapevolizzazione delle masse, capace di diffondere valori di condivisione, supporto reciproco e solidarietà.
L’album "Il Labirinto dei Topi" raccoglie 8 composizioni, la maggior parte delle quali sono caratterizzate da tematiche di disfunzione sociale (Il Labirinto dei Topi, Gomorra, Scherzo, The Shooting). Ma il vero trait d’union dei vari brani rimane comunque la mia personale ricerca compositiva, in cui la fusione di influenze provenienti dal jazz moderno, dalla musica classica contemporanea, dalla musica carnatica indiana, dal rock progressive, dalla musica elettronica e dal free jazz contraddistingue la singolare estetica di questo progetto, ispirato alle esplorazioni musicali di grandi artisti contemporanei e non, come Vijay Yier, Steve Lehman, Tyshawn Sorey, Gérard Grisey, Olivier Messiaen,… Il risultato di questa mia personale elaborazione prevede composizioni accomunate da linee melodiche dissonanti e contorte e da soluzioni ritmiche complesse e inusuali, cucite su misura per quegli incredibili musicisti che mi hanno accompagnata in questo percorso.
Sono loro che con grande serietà e dedizione hanno dato vita alla musica che ho composto tenendo conto delle singole abilità tecniche e delle grandi capacità virtuosistiche di ognuno. Il Labirinto dei Topi è un album che non può essere eseguito da qualsiasi musicista: infatti, oltre a presentare una notevole preparazione tecnica, Claire, Federico, Niran, Simon e Ramon sono musicisti di larghe vedute, che difficilmente si conformano alla figura del musicista jazz tradizionale. Colgo l’occasione per ringraziarli nuovamente per il loro duro lavoro.
Cosa ami di più della fase di registrazione di un album e quali le differenze e difficoltà rispetto ad un concerto dal vivo?
Andare a registrare in studio è un’esperienza totalmente diversa rispetto a quella dei live: da batterista apprezzo sempre moltissimo il fatto di poter regolare i volumi degli altri strumenti in cuffia, così da essere sicura di sentire tutto alla perfezione, senza dover trattenere entusiasmo e dinamiche. È un lusso che purtroppo noi batteristi non ci possiamo permettere spesso durante un concerto dal vivo. Mi piace molto anche la fase di ascolto delle varie take con il resto della band: è un importante momento meditativo di contrattazione e di confronto, dove insieme si pensa a come poter migliorare il suono collettivo, comunicando le priorità musicali di ciascuno all’interno delle diverse tracce.
Inoltre, specialmente se non si registra in presa diretta, trovo la parte di editing estremamente interessante e vantaggiosa: un musicista in studio deve sempre tenere conto delle straordinarie possibilità garantite dall’editing, così da non sprecare tutte le sue energie durante le prime ore di registrazione, compromettendo eventuali brani registrati in condizioni di forte stanchezza. Personalmente preferisco di gran lunga suonare live: c’è sicuramente una maggiore interazione e di conseguenza più divertimento, e ho l’impressione che ciascun musicista sia più propenso ad azzardare soluzioni musicali più audaci. Spesso infatti la registrazione rischia di diventare un semplice prodotto cristallizzato e destinato alla vendita, che tuttavia non rispecchia l’istintività e l’autenticità del live.
D’altra parte, ricreare le stesse dinamiche di un concerto dal vivo in studio non è sempre facile: soprattutto registrando in stanze separate, la comunicazione e l’interazione vengono profondamente ostacolate, rischiando così di ottenere un risultato musicale prudente e corretto ma pur sempre sobrio e poco accattivante.
L’ultima domanda non può che guardare al domani. Da qui ad un anno, cosa vorresti veder realizzato guardandoti indietro?
Sicuramente vorrei vedermi negli Stati Uniti, magari con un secondo album pubblicato in tasca! Sto attualmente componendo della nuova musica per un progetto di ricerca che andrà a coronare questo mio nuovo percorso al Berklee Global Jazz Institute: a marzo dell’anno scorso infatti ho vinto una borsa di studio per frequentare un programma di Master diretto dal pianista Danilo Pérez. Causa Covid, da inizio settembre ad oggi ho seguito lezioni online con alcuni dei giganti del nostro settore, tra cui John Patitucci, Joe Lovano, Danilo Pérez, Kris Davis, Adam Cruz e molti altri. Tuttavia la mia speranza rimane quella di riuscire a partire un giorno, e se non sarà per ultimare questo master data l’attuale pandemia, magari sarà per un Internship, un Phd o per un’esperienza lavorativa negli States in futuro.
L’America è sempre stato il mio sogno nel cassetto, e ad essere sincera al momento mi sento ancora troppo giovane per stabilirmi in un posto e restarci per il resto della vita, per cui penso che continuerò a vagabondare ancora per qualche anno nella speranza di trovare presto qualche sbocco lavorativo di sostanza.
D’altro canto, anche il mio Paese ultimamente mi sta regalando grandi soddisfazioni: la selezione di Archipélagos per il progetto Nuova Generazione Jazz 2021 organizzato da I-Jazz è stata una grandissima sorpresa, che spero mi aiuterà a farmi conoscere nella scena jazz italiana, ponendo le basi per la creazione di nuovi contatti e collaborazioni. Ritengo che l’Italia proponga un ventaglio di personalità musicali molto interessanti e di proposte artistiche creative ed alternative, quindi cerco di non precludermi alcuna possibilità e di lasciare molteplici “autostrade per il futuro” aperte.
Articolo del
18/01/2021 -
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