Cari lettori di extra, oggi faremo un salto lungo, profondo e lontano. Andremo in America, vi racconterò di una canzone e dell’importanza che essa ha avuto sotto il profilo storico/sociale.
Ma come sempre bisogna fare un passo indietro. Negli anni ’60, l’America non viveva un momento di “emancipazione sociale” perché all’interno della stessa società, contrariamente alla sua carta d’indipendenza costituzionale, gli individui erano discriminati in base al colore della pelle, tanto da suddividere le persone di serie A che erano i “bianchi” dalle persone di serie B, che erano i “neri”. Purtroppo, anche se è passato più di mezzo secolo, questo problema è più vivo che mai e, nonostante dopo decenni il mondo sia cambiato e sia sempre in “evoluzione”, diventando sempre più “diverso”, per genere, razza e cultura, non si riesce ancora a capire che la diversità in una società è il primo fondamento che uno Stato dovrebbe emanare, accettare, custodire e proteggere perché rappresenta un valore aggiunto fondamentale per uno Stato moderno e libero.
Lo scrittore Tiziano Terzani diceva: “solo se riusciremo a guardare l’universo come un tutt’uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella diversità, cominceremo a capire chi siamo”. Oggi, vi racconto “Hurricane” di Bob Dylan. Siamo nel 1976 e in America a riempire le pagine di giornali ci sono due personaggi dai tanti talenti, l’uno diverso dall’altro: sono due opposti e come si dice “gli opposti si attraggono”. Il primo fa il cantante rock con uno stile folk, cantando l’attualità e dando finalmente al rock il valore di cantare il sociale e di dare la giusta attenzione a quel tema razziale che fino a quel momento si era timidamente espresso. Lo chiamano il menestrello, il folletto, perché con il suo cappello, la sua chitarra e la sua armonica sembra davvero un personaggio venuto da un altro mondo. Per tutti è Bob Dylan. Il secondo lo chiamano “Hurricane”, fa il pugile e si chiama Rubin Carter. E’ un afroamericano campione dei pesi medi, soprannominato Hurricane (l’uragano) per la sua irruenza sul ring. La storia di Hurricane ha soprattutto a che fare con una parte della società americana cieca, corrotta, bigotta e razzista.
La storia della canzone creata da Bob Dylan e dedicata integralmente al pugile, prendendo anche il titolo “Hurricane”, nasce dopo una “sconfitta” avuta contro il campione di allora Joey Giardello, italo americano e bianco. Pensate che Carter perse l’incontro ai punti e alla lettura del punteggio tutto il pubblico presente contestò il verdetto con una serie di fischi assordanti, tanto che lo stesso Joey Giardiello, alla proclamazione, non sentì neppure il suo nome e si accorse di essersi aggiudicato l’incontro solo perché l’arbitro di gara gli alzò il braccio in segno di vittoria. Quella sconfitta per il mondo del pugilato e per una parte degli Americani aprì una crepa mai chiusa. Per anni e per gran parte degli Americani quello è stato un verdetto ingiusto per motivi razziali. Quello che però accadde due anni dopo quell’incontro ha qualcosa di paradossale e sconcertante.
Nella notte del 17 giugno 1966 nel New Jersey due uomini entrarono nel bar “Lafayette Grill” per compiere una rapina durante la quale furono uccise tre persone: il barista, il cliente e una donna, che morì un mese dopo. Un criminale che frequentava quella zona, tale Alfred Bello, chiamò per primo le forze dell’ordine, e successivamente con la sua testimonianza, incastrò Rubin Carter “Hurricane”. La sfortuna volle che lo stesso giorno Carter fu fermato dalla polizia: la sua auto era simile a quella avvistata vicino al bar e il pugile deteneva una pistola dello stesso modello di quella utilizzata nel triplice omicidio. A questo si aggiunsero anche dei piccoli precedenti con la giustizia avuti in gioventù, passata per anni in riformatorio; il risultato fu che al processo, una giuria interamente bianca, così come bianco era il procuratore, accusò ingiustamente Carter di triplice omicidio e lo condannò all’ergastolo.
Nel lungo periodo di detenzione Rubin Carter “Hurricane” continuò a dichiarare la sua innocenza, tant’è che scrisse una sua autobiografia, “The Sixteenth Round” inviando una copia a Bob Dylan che in quel momento era noto per il suo impegno nella difesa dei diritti civili. Dylan si appassionò talmente alla storia di Carter che, dopo aver letto il libro in poche ore, decise di voler incontrare personalmente Hurricane, e così fu. Si recò alla prigione di stato di Woodbridge (al Rahway State Prison di Woodbridge), il carcere dentro il quale Carter era detenuto. L’incontro durò giusto il tempo per convincere Bob Dylan ad attivarsi per lui. Quell’incontro, fa il giro del mondo grazie a una foto scattata all’interno del carcere, spostando anche l’attenzione verso tutta una certa stampa e politica che fino a quel momento aveva fatto finta di non sapere. A questo si aggiunse il vero e proprio manifesto, che Bob Dylan tirò fuori dopo l’incontro.
Bob Dylan da quell’incontro ne uscì stravolto perché capì che Rubin Carter era una persona così buona e tranquilla che non poteva aver commesso quegli omicidi. Per Dylan, quella storia doveva essere raccontata in un modo tale da rimanere impressa, scardinando tutto un muro di omertà e reticenza che c’era stato fino a quel momento e che era durato oltre dieci anni. Così, qualche giorno dopo (30 giugno 1975), con l’amico e autore Jacques Levy, Dylan scrisse la canzone “Hurricane”: oltre otto minuti di sfogo rabbioso ma pieno di particolari, con cui Dylan, attraverso il suo talento e con 20 strofe, denuncia cosa accadde realmente in quella tragica sera (17 giugno 1966). Nella prima versione il testo della canzone elencava i nomi e cognomi degli attori della tragica vicenda, ma poi gli avvocati della casa discografica, convinsero Dylan a realizzare un’altra versione, priva dei riferimenti a persone realmente esistenti. Dylan la inserì come brano apripista dell’album Desire del 1976, ma la storia ci dice ancora che Patricia Valentine, testimone chiave del processo e citata nella canzone, portò in tribunale il cantautore, che però fu scagionato.
Il brano ebbe grande risonanza, al punto che venne pubblicato anche come 45 giri, con quattro minuti per ciascun lato, cosa mai successa prima. Bob Dylan in quell’anno (1975) dimostrò che la musica, e il rock in particolare, oltre ad essere uno stile musicale, poteva rappresentare un modo di vivere e soprattutto di veicolare attraverso la musica temi sociali importanti, denunciando le ingiustizie e vessazioni. In conclusione, nel 1985 il giudice della Corte Federale dichiarò che il processo era stato inquinato da motivazioni razziali, e il 26 febbraio 1988 cadde definitivamente ogni accusa per l’ex pugile, che tornò in libertà.
Purtroppo “Hurricane” ancora oggi rappresenta una canzone attuale: basta solo che al titolo si sostituiscano nomi come: “George Floyd”, “Michael Brown”, “Tamir Rice” e tanti altri, vittime di una parte di società che vede ancora oggi nella “diversità” un ostacolo e non un’opportunità. Era il 1976 e questa storia rappresenta una speranza per il nostro futuro: tra speranza e delusioni, sofferenza e compassione, rabbia e amore, alla fine la verità ha trionfato.
Articolo del
02/07/2021 -
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