Quelli di Cesare Picco non sono concerti ma gesti di libertà. Un pianista che naviga tra classica, jazz e avanguardia potrebbe cercare l’applauso facile con un’esecuzione perfetta di un preludio di Chopin o, passando al mondo del jazz, con un pezzo di Bill Evans.
No, Cesare Picco è un “improvvisatore” che, giorno dopo giorno, si misura con il pubblico e proprio durante il concerto fa nascere la sua musica. Ha studiato composizione e ha collaborato con grandi artisti sia del mondo classico, (tra gli altri Giovanni Sollima, Carlo Boccadoro), sia della musica pop, (Ligabue, Bocelli, Giorgia). Ha composto colonne sonore per il teatro e ha scritto le musiche di diversi balletti portati sul palco della Scala. Ma evidentemente non gli basta: prima ha sperimentato i concerti immersi nel buio totale e un mese fa, per il festival Piano City Milano, ha tenuto i concerti all’alba con le note del piano ad accompagnare il sorgere del sole. In questa intervista esclusiva per Extra Music Magazine Cesare Picco spiega la filosofia della sua musica.
_ Pianista, compositore, clavicordista ma soprattutto improvvisatore che unisce tradizione e sperimentazione. Che cosa significa improvvisare? Un musicista deve pur sempre rispondere al pentagramma.
“Da sempre chiunque senta parlare di improvvisazione pensa al jazz. Chiariamo che la musica è un linguaggio e come tale ha una sua grammatica e se tu vuoi parlare una lingua devi conoscere le regole. La forza del jazz è proprio l’improvvisazione che in questo caso si svolge dentro a uno schema, cioè le regole di quella lingua. Io ho studiato jazz e l’ho praticato per anni ma non sono un jazzista. Il discorso che faccio io è molto diverso: è il gesto ultimo della creazione in tempo reale di suoni di un linguaggio di una lingua mia. Io uso più grammatiche insieme. Mi interessa maggiormente la storia delle tante musiche del mondo e non solo quelle occidentali”.
_ Quindi il pianoforte è il tuo veicolo di espressione?
“Mi piace far nascere la musica davanti al pubblico, in un determinato momento, con il mio piano, con quella data acustica. Il pianista dev’essere pronto a cogliere coi sensi tutto quello che si avverte durante il concerto. In quel modo crei un nuovo linguaggio”.
_ Quindi è questo il motivo per il quale hai creato i concerti al buio? Mi è capitato durante i concerti di stare sul palco dietro ai musicisti e mi ha sempre impressionato vedere da lì il pubblico in platea quindi dev’essere una sensazione strana suonare senza vedere niente. Peraltro, la stessa meraviglia l’avranno manifestata i tuoi spettatori.
“La mia avventura è iniziata quando mi sono detto: sei un improvvisatore e non devi fare il circo eseguendo il preludio di Chopin a tamburo battente. Intuivo che dovevo sparigliare le carte e togliendo il senso della vista avrei acquistato un senso più potente amplificando le sensazioni. Suonare al buio è come avere dentro un amplificatore analogico, valvolare, di quelli antichi che ti permette di avvertire i suoni che arrivano da lontano”.
_ È un momento importante per l’orecchio del musicista ma il pubblico come la prende?
“La forza di questo esperimento è che il pubblico vive contemporaneamente quel momento e diventa così un’esperienza da fare insieme. Ti dico che dopo un quarto d’ora, avverto nitidamente di stare a suonare con mille persone tutti assieme, una vera botta di energia”.
_ Ci sono stati due diverse fasi: inizialmente hai tenuto i concerti per piano solo e poi coi musicisti sul palco, tutti al buio. Quali sono le differenze?
“Anche questo è stato un bel percorso. Se non riesci a vedere gli altri musicisti scatta un altro livello di sensorialità. Come stare su una navicella spaziale in una nuova dimensione. Sono impegnato da più di dieci anni in una battaglia per la conoscenza del buio. Non solo come concetto fisico ma metafisico”.
_ Fabrizio De André, quando andò a vivere in campagna rimase per sei mesi senza luce con un generatore di corrente che si esauriva all’imbrunire. Disse che quell’esperienza gli aveva fatto capire due cose: primo che tutti noi abbiamo dei bisogni indotti e poi che l’orecchio del musicista, nel silenzio della notte, poteva cogliere suoni particolari.
“Condivido in pieno il giudizio. Non solo abbiamo bisogni indotti ma anche i nostri sensi sono influenzati dall’esterno. Siamo abitudinari e per riuscire a metterci alla prova dobbiamo mandare tutto all’aria”.
_ Sparigliare le carte con quale scopo?
“Per me significa avere la capacità di giocare coi propri sensi per vedere il mondo in una maniera nuova”.
_ Dopo i concerti al buio il mese scorso hai proposto quelli all’alba. Cinquecento persone hanno invaso l’Ippodromo di San Siro alle 5 del mattino. Dal tramonto alla luce, che significa?
“In questo momento, dopo il lockdown, le persone hanno bisogno di vivere qualcosa di molto forte anche sul piano sensoriale. Da musicista riconosco il potere del suono, parlo di suono, la musica è un’altra cosa. È la forma più potente di comunicazione tra esseri umani e creato; noi siamo vibrazioni e il potere di queste onde è fondamentale. Se cinquecento persone hanno deciso di alzarsi alle tre e mezzo per venire a sentirmi significa che scientemente avevano deciso di condividere un’esperienza in comune”. Al buio mi permetto di fare cose non facili perché voglio provare a scuotere l’ascolto con suoni alternativi. All’alba non faccio un pezzo dietro l’altro, avverto il bisogno di un suono che nasca dal profondo per accompagnare il sorgere del sole”.
_ La musica può creare una coscienza sociale?
“Tutti i musicisti hanno un ruolo fondamentale, anzi direi tutti gli artisti che in questo momento possono e devono far la differenza. Non si può continuare a parlare tutti i giorni di economia e finanza: possiamo anche riuscire a pagare i debiti ma se abbiamo da curare le ferite della mente e dello spirito non basterà. È il nostro un ruolo importante soprattutto in un paese che considera gli artisti come dei giullari”.
_ Ad Asciano hai realizzato un Festival del suono e credo che sia la prima manifestazione del genere in Italia. Prendi in esame il suono in tutte le sue declinazioni ma noi siamo circondati da suoni standardizzati che non sappiamo decifrare. Tra l’altro, se vogliamo dirla tutta, anche una chitarra acustica amplificata in uno stadio non ha più un suono naturale.
“Senza andare troppo indietro, diciamo da un secolo dall’arrivo della riproduzione sonora, il senso dell’udito è cambiato con una velocità esponenziale. Se prendiamo un’icona come Woodstock, quell’impianto suonava un quarto di quello di una discoteca di oggi. E pensa che cosa hanno sentito, o meglio non hanno sentito, le centinaia di migliaia di persone che stavano a due chilometri di distanza. Nel mondo della musica classica sino a cento anni fa si ascoltava – e adesso accade ancora nei teatri – in acustico ma la differenza sta nell’orecchio che prima era abituato ad ascoltare i timbri, gli strumenti e le sfumature. La nostra musica occidentale per tre secoli ha vissuto di sfumature che i musicisti creavano e che il pubblico sapeva riconoscere. Ora è cambiata la tipologia di ascolto. Si tratta di rieducare il pubblico all’ascolto”.
_ I grandi musicisti non sono semplicemente dei virtuosi del proprio strumento ma devono essere innovatori?
“È vero ma personalmente non mi interessa che mi vengano a elogiare perché una musica è bella; mi interessa l’emozione, che la musichi ti tocchi dentro, che ti arrivi”.
_ E allora dimmi cosa è la cattiva musica: quella impura, di routine, disonesta perché fatta di formule a tavolino?
“Potrei risponderti quella che ha suoni brutti, ignoranti, fatta da persone che potrebbero fare altre cose molto meglio. La differenza sta nelle persone che devono credere in quello che fanno, nelle loro intenzioni. Sono un anti-virtuoso per eccellenza, magari mi interessa fare con una nota quello che altri fanno con cento note”.
_ Uno dei parametri fondamentali della musica è il tempo. E le regole, penso alle scale, ci dicono che la musica è matematica.
“Sino a un certo punto. O meglio è vero ma poi nella musica c’è qualcosa che non riusciamo a decifrare. Il ritmo lo inserisci nella giusta pratica, puoi anche fare un’equazione, ma ci sarà sempre un dieci per cento di indefinito che rende magico un brano. Se fosse matematica saremmo tutti geni”.
_ Il 21 luglio a Milano ci sarà una prima assoluta con Roberto Cotroneo, un intellettuale autore di tanti saggi e romanzi. Un nuovo esperimento?
“E’ da tanti anni che volevamo fare qualcosa insieme. Cotroneo, oltre a essere giornalista e scrittore, è anche un pianista, un fotografo, e un grande appassionato di musica. Credo che viaggeremo tra i nostri amori musicali”.
_ Mi fa pensare che la tua curiosità non sia solo musicale e che anche questa sia un’occasione per superare ogni limite di stile.
“Certo il confronto e gli scambi con altri generi di arti è fondamentale. Facciamo uno dei mestieri più straordinari del mondo ma se non si è curiosi non si va da nessuna parte”. Cesare Picco ci saluta e sale sul palco. Che farà stasera? L’unica cosa certa è che sarà un’esperienza unica: «Sono un pianista seduto a ovest con le mani a est”, dice, “e guardo la stella polare annusando i profumi del Sud».
Articolo del
13/07/2021 -
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