Questo è un libro troppo facile per essere facile. Tanto è vero che, leggendo altre recensioni, mi viene da pensare che non sia stato capito. In effetti Dylan, lo Scorbutico, non fa nulla per venire incontro al lettore, specie quello d’oggidì: 66 saggi su altrettante canzoni, divisi spesso in una parte “lirica” e in una “critica”, come ha scritto qualcuno che stroncato immeritatamente il volume. La parte lirica è in pratica una riscrittura (“in stile beatnik”) del testo, ma, lungi dall’essere “un conato simil-stream of consciousness di immagini e storielline stereotipate”, come è stato scritto, fornisce una contestualizzazione del testo, un suo inquadramento che si allarga oltre le parole della canzone, immaginando la storia che sta dietro a ciò che è narrato nella canzone: certo, per accorgersene bisogna andare a leggersi i testi di ogni canzone presa in esame da Dylan, e questo non è da tutti.
Ma è un esercizio che consiglio vivamente di fare per diversi motivi: uno, questo non è un libro da leggere in fretta, ma da centellinare, magari ascoltando la playlist delle canzoni prese in esame che qualche anima pia ha composto su Spotify; due, per il semplice motivo che aiuta a capire di cosa sta parlando Dylan, dove si attiene al loro testo e dove scava nell’ambientazione della storia e nella psicologia dei personaggi, nei loro moventi e nella porzione di mondo, spazio-temporale, che ritraggono. In questo senso "Filosofia della canzone moderna", cui Dylan ha lavorato dal 2010, è il corrispettivo di album come CHRISTMAS IN THE HEART (2009), SHADOWS IN THE NIGHT (2015), FALLEN ANGELS (2016) e TRIPLICATE (2017), che saccheggiavano il Great American Songbook per salvare dall’oblio un pezzo della storia culturale popolare d’America.
Ciò che agli inizi della sua carriera ha fatto con il folk e il blues, a volte coverizzando, a volte “rubando” come solo gli artisti sanno fare, Dylan lo ha rifatto negli ultimi anni con il country, la produzione del Tin Pan Alley e gli standard jazz: i dischi succitati costituiscono l’espressione del suo amore per il patrimonio culturale popolare USA; questo libro ne costituisce la riflessione. La parte critica allarga il discorso a quella che, trattandosi di un contesto di popular music, non può che essere la filosofia spicciola di vita, la visione dell’esistenza propria del popolo, con una rivendicazione orgogliosa da parte di Dylan di ciò che insegna la strada che però - grazie a Dio - non tracima mai nel populismo, dato che alla strada rimane confinata e non si estende ai massimi sistemi, alle leggi della macroeconomia, della geopolitica o della scienza.
La strada insegna ciò che serve nella vita quotidiana, punto e basta. Dylan si schiera decisamente dalla parte degli ultimi, di coloro che tirano la carretta con fatica ogni giorno per portare a casa la giornata e sopravvivere: ma non li magnifica. Non vede mai nel popolo la quintessenza del bene: il popolo è fatto di individui, alcuni buoni, altri cattivi; alcuni scaltri, altri ingenui; alcuni disonesti, altro onesti; e via dicendo. La riflessione di Dylan in qualche modo ha il sapore dei grandi moralisti anglosassoni o dei sermoni, visto come parte da un aneddoto, allarga il discorso ad aspetti generali e poi plana sul particolare aspetto esistenziale trattato da questa o quella canzone. Ma la filosofia della canzone moderna che si squaderna in questo volume è anche altro: il mix di parole e musica, indissolubilmente interdipendenti tra loro che caratterizza la forma (o il genere) canzone; la maestria nell’uso di certe particolari rime; le soluzioni musicali che rendono quella versione di quella canzone memorabile. E tutto viene spiegato in parole semplici, comprensibili anche a chi è digiuno di nozioni musicali o metriche.
C’è chi ha avuto la sventatezza di notare che, siccome la canzone più vicina a noi trattata nel libro è “London Calling” dei Clash (1979), il concetto di canzone “moderna” esposto in questo volume sarebbe quello di un ottantenne. Affermazione stolta, dato che esistono una canzone medievale (nel Medioevo anzi nasce il genere canzone), una rinascimentale, una barocca, una rococò, una romantica. La canzone moderna è quella del Novecento, quella pop, laddove pop è da intendersi nel senso più generale del termine, quello di popular music, che nasce in ambito urbano alla fine dell’800 ed è caratterizzata dall’interscambio fecondo di tradizione folk, materiali della tradizione colta e operistica, e tradizioni popolari di etnie differenti che si mischiano in conseguenza dei fenomeni dell’urbanizzazione, dell’emigrazione e della globalizzazione. La canzone che va da fine Ottocento agli anni ’70 del Novecento è quindi la canzone moderna, diversa da quella contemporanea, affermatasi dall’inizio del secolo e che sembra aver perso ogni contatto con le radici della tradizione popolare.
“Filosofia della canzone moderna” è dunque un gran libro, che prosegue l’operazione fatta da Dylan non solo in tempi recenti, ma nel corso della sua intera carriera: quella di recupero della tradizione popolare USA a cui His Bobbyness ha dato nuova vita innestandola da par suo con i più disparati riferimenti letterari e musicali. È il motivo per cui ha vinto il Nobel. Conseguentemente, “Filosofia della canzone moderna” è il libro di un americano, in cui logicamente poco spazio hanno musiche di altri Paesi: ci sono però Brecht e Kurt Weill (quest’ultimi decisivi nella sua formazione, come rivelato dall’autobiografia di Suze Rotolo), Modugno, The Who ed Elvis Costello, qualche francese, un armeno. Ma sempre visti dal punto di vista di un americano. Perciò questo è anche un saggio che ci permette di addentrarci più a fondo nella cultura del periodo più vitale e positivo degli Stati Uniti, prima dell’affermazione di reaganismo e neoliberismo, nei lati oscuri e in quelli luminosi di quello che un tempo fu un Grande Paese. È ovvio che diversi aspetti sfuggano a un europeo, ma ciò non è un limite, bensì un’opportunità per chiunque abbia amato le musiche che nel Novecento gli USA hanno donato al mondo. Sospetto però che Dylan abbia cercato di trasmettere significati più ampi di quanto ha solo scritto tramite l’imponente e curatissimo apparato iconografico che correda il volume: certo, anche un americano di oggi avrà problemi a decodificare questi ulteriori messaggi, ma che non siano pura decorazione è confermato anche dal fatto che a p. 8 nella parte lirica dedicata a “Pump It Up” di Elvis Costello si cita una capretta che nel testo non c’è, ma compare nella foto promozionale di “Beggars Banquet“ degli Stones che si trova dieci pagine più avanti.
Mi vengono in mente il “cubismo” di un testo dylaniano come “Visions of Johanna”, nonché il fatto che l’autore è anche pittore ed è stato regista (su “Renaldo e Clara” i gradimenti possono essere disparati, ma il suo tentativo di essere visionario e surreale è indubbio). Infine, teniamo conto che a volte il Re si diverte: come quando, commentando “Blue Moon” nella versione di Dean Martin, s’inventa che il cantante, noto alcolizzato, sarebbe “morto distrutto, intristito e in solitudine: ubriaco davvero, con addosso una giacca a vento tutta macchiata, da solo in un ristorante del Sunset Strip con divanetti di pelle rossa e bottiglie di bourbon. Sia lui che il ristorante avevano visto giorni migliori”. Bellissimo, eh? Peccato che Dean Martin sia morto per enfisema, dopo anni di malattia, nella sua villa di Beverly Hills, il Natale del 1995. Sembra di vederlo ghignare, His Bobbyness, beffardo e soddisfatto, all’ombra del suo cappello: “Io non sono qui”, come aveva capito Todd Haynes nel suo bel film del 2007. Compratelo, leggetelo, amatelo.
Articolo del
03/01/2023 -
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