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Con l’arrivo del tanto atteso caldo si apre anche la stagione concertistica di Luglio suona bene 2010. È Herbie Hancock, gigante assoluto del jazz, a dare il “la” alla rassegna. The Imagine Project, creato utilizzando un linguaggio globale, sfrutta la musica come trait d’union fra le genti e ha come meta finale il raggiungimento di una pace mondiale. I brani, quando è stato possibile, sono stati registrati nei luoghi d’origine degli autori che hanno collaborato alla stesura dell’opera.
La sala scelta è la Cavea, traslata fisicamente all’aperto. Verso le ventuno il pubblico rumoreggia impaziente, mentre i tecnici delle luci provano qualche settaggio. Dopo qualche minuto è Tal Wilkenfeld, basso e voce, a fare il suo ingresso, seguita dall’occhialuto Vinnie Colaiuta che mette subito le cose in chiaro. Rullata, abbellimenti sull’hi-hat, terzine e sedicesimi a cascata sono il chiaro presagio di una sezione ritmica che stasera farà faville. Pochi minuti dopo, con un balletto simpatico, è il “nostro” ospite a prendere posto dietro la fortezza, fatta di pianoforte (Fazioli) e tastiere, che lo circonda. Intanto una combinazione di luci rosse e viola ruota intorno a disegni concentrici e danzanti, creando un’atmosfera psichedelica. Lo strettissimo fraseggio fra Vinnie ed Herbie scatena una serie di applausi scroscianti. Lentamente, intanto, il resto della band cresce in modo esponenziale. Il chitarrista, apparentemente in disparte, ha l’arduo compito di tessere fitte trame sonore che arricchiscono il già complicato dialogo policromatico fra questi due mostri sacri. La Gibson di Lionel Loueke, filtrata dal wah-wah, si scontra nervosamente con Herbie, qui al moog, per una serie di passaggi simili a gemiti primordiali, eruttati come necessità primarie da questi due strumenti infuocati. In mezzo si frappone l’indomabile vecchio leone delle pelli, inventando controtempi magistrali, incapace di stare fermo su una ritmica, lineare, per più di pochi secondi. Dopo una seconda take, più morbida, si riparte su ritmi infernali, durante i quali Greg Phillinganes, musicista dalle doti eccelse, nonché collaboratore di Stevie Wonder, Clapton e Aretha Franklin, torreggia su tutti, destreggiandosi fra tastiere e una buona performance vocale. La sua timbrica profonda e roca affianca Kristina Train, alla voce, esaltata dallo stesso Herbie durante la presentazione. Purtroppo, come quasi sempre succede in quel di Roma, il solito decerebrato di turno le urla: “nuda!!”. La sua intensa interpretazione, di una cover di Joni Mitchell, spazza via questo mediocre intervento. Con il passare dei minuti la tensione sale e le luci sono per il leader, lanciato in un medley dei suoi vecchi cavalli di battaglia. Vinnie intanto passa alle spazzole per dimostrare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che la sua potente agilità può trasformarsi in un felpato tocco liquido. Velocizzazioni e soffici giochi sui piatti fanno da contraltare ai martellanti accordi di Hancock, che s’inserisce prepotentemente fra i pattern ritmici, arricchendoli di colori cangianti. Fra le cover proposte arrivano quattro capisaldi assoluti: Imagine, inossidabile brano di Lennon, viene sezionato in chiave jazz nella prima parte per poi decollare su atmosfere danzerecce. Tamantant Tilay/Exodus, è un ibrido nato dall’incontro con i Tinariwen che confluisce nel classico di Bob Marley.
È un periodo di profondi cambiamenti sociali, ci dice Hancock al microfono, e la scelta appare obbligata, The Times They Are A-Changing, classico di Dylan, vede una prima fila tutta al femminile. Le due prime donne giganteggiano sul resto della band, ma Tal, letteralmente osannata dalla pioggia di applausi dell’attento pubblico, tira fuori un asso dall’ugola, oscurando la prima voce della serata. È Greg a chiudere questo poker servito, confrontandosi con uno dei pezzi più belli, e difficili, della storia, A Change Is Gonna Come, ultimo brano scritto da Sam Cooke prima di essere ucciso in circostanze mai chiarite.
Per gli encore la band non si lascia pregare e, dopo solo due minuti, torna sul palco. Dal buio spunta un Roland AX-7 pieno di luci. Due brani per chiudere: il primo vede protagonisti il pianista contrapposto a Lionel, in un parossistico duello fra i due strumenti. Note policromatiche, intrecci fra accordi e poliritmie costringono i presenti a profonde vibrazioni emozionali. La mente si astrae di fronte a tanta bellezza, il corpo assorbe il groove, lo filtra in base alla propria esperienza riconvertendolo in sorrisi, urla e applausi. Pochi minuti dopo l’aria e le note cosi bollenti costringono gli astanti ad abbandonare i seggiolini riversandosi sotto il palco. Si danza sullo stesso funky, che ha aperto la serata, posto come sigillo di questo show carnale. In una parola: STELLARI!!
(La foto di Hancock in azione all'Auditorium di Roma è di Musacchio e Iannella)
Articolo del
03/07/2010 -
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