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A pochi giorni di distanza da un altro gigante del pianoforte l’Auditorium Parco della Musica ospita un duo di fine grana. A contendersi (si fa per dire) le luci della ribalta stavolta sono Chick Corea, già visto in formazione stellare lo scorso anno, e Stefano Bollani, nome rimbalzato noto fra gli aficionados del jazz, e non solo.
A differenza della scorsa settimana la sala si riempie interamente. Corea, di certo, è un incentivo in più per comprare il biglietto, ciò non toglie che Bollani sia amato ed apprezzato dal pubblico romano. Con questo caldo infernale la gente è più impaziente del solito, alle ventuno partono i primi applausi di incoraggiamento. In pochi minuti le luci si abbassano e, dopo le solite comunicazioni su ciò che è strictly forbidden, ecco spuntare i due personaggi. Vestiti come fossero appena uscita nel prato di casa per una grigliata fra amici, i due si accomodano dietro i pianoforti. Corea in tuta nera e maglietta, l’altro pantalone anonimo e camicia. Sono tanto dismessi da farci pensare che abbiano dimenticato di provare qualche passaggio nel soundcheck e siano usciti, un attimo, per rivedere alcune cose, ignari della presenza del pubblico. Ma cosi non è, i due non badano all’aspetto e, dopo essersi scambiati la mano, iniziano un gioco di scambi musico/teatrali irresistibili. Sette takes ad alto potenziale esplosivo. La grana è finissima. Ad ogni brano i due si scambiano il posto, ripulendo, scherzosamente, le proprie postazioni in onore dell’altro. Ciò che salta subito all’occhio è l’apparente immobilità di Corea, completamente perso nel suo lavoro, contrapposta alla fisicità nervosa, e incontenibile, di Bollani, che ricorda il comico Paolo Migone per il fisico alto e dinoccolato. Il dialogo fra i due piani prevede una serie di intrecci stilistici ricavati da finissime matrici blues che confluiscono nello swing. Le lunghe suite sono un puro piacere per le orecchie. Pochi i virtuosismi, per lo più accennati e non fini a sé stessi, molti i giochi di fluidità su scale velocissime che si scontrano con accordi martellanti. Sembrano due amici di vecchia data, più che divertire il pubblico giocano fra loro, imponendosi i tempi l’un l’altro, concludendo ogni brano come fosse un puzzle in cui inserire i pezzi mancanti. La prima parte dello show ha come sigillo un siparietto divertente in cui Bollani fa finta di tradurre, in italiano, un incomprensibile linguaggio appena coniato da Corea, basato su un’inintellegibile serie di rumori gutturali.
Dieci minuti sono più che sufficienti per farli ritornare, on stage, più carichi di prima. Le dita, agili, di Corea, volano letteralmente sui tasti mentre un Bollani, indemoniato, non riesce a mantenere una posizione statica per più di qualche minuto. Il suo approccio teatrale ha la massima espressione in un brano che lo vede impegnato, anche al canto, dove scimmiotta giocosamente il buon Sinatra, ricalcando, in un mirroring volutamente deformato, questo singer amato di milioni di persone.
C’è ancora tempo per un brano infuocato, dalla ritmica latina, prima della loro uscita rumorosamente rifiutata dal pubblico che li rivuole sul palco. E quando gli astanti “s’inferociscono” solo centosettantasei tasti in avorio possono addolcire, o abbattere, questa fiera fatta di corpi accaldati, attraverso una serie di policromatiche dinamiche, di cui i due maestri sono capaci, che schiantano la platea con un brano finale al fulmicotone.
(La foto di Chick Corea all'Auditorium di Roma è di Musacchia e Iannello)
Articolo del
10/07/2010 -
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