Ci sono serate che restano impresse nella memoria, non solo per gli applausi, ma per ciò che ci lasciano dentro.
Ascoltavo Massimo Priviero circa trent’anni fa, considerandolo uno dei pochi autentici rocker italiani. Poi, per ragioni misteriose, ho smesso di seguirlo, fino a qualche settimana fa, quando ho ripreso ad ascoltare i suoi lavori in vista del nostro incontro a Milano: io avrei presentato il mio romanzo, Ciò che resta della notte, e lui avrebbe suonato dal vivo alcune canzoni ispirate alla playlist del libro. La presentazione, organizzata da Giordano Casiraghi e Massimo Poggini, è stata l’ultima data del “tour musicale” del libro, pensato e organizzato dal grande Renato Marengo.
Ricordavo una voce ruvida e potente, canzoni intense, ma il tempo aveva attenuato quei ricordi. Riascoltando i suoi album, vecchi e nuovi (tra cui il meraviglioso Diario di Vita, recensito su Extra! nel 2024, con annessa intervista), ho riscoperto un artista straordinario, autore di veri capolavori. E così, quando ci siamo incontrati di persona, è stato come ritrovare un vecchio amico: è bastato un attimo per ritrovare la sintonia.
Durante la presentazione, Massimo ha interpretato classici del folk-rock americano come "Chimes of Freedom", "We Shall Overcome," "Helpless", per poi immergersi nel suo universo poetico con "San Valentino" e la conclusiva "Libera terra". “Questa terra è tua, questa terra è mia.” Un verso semplice e incandescente, che non appartiene alla retorica ma alla coscienza. È Guthrie che incontra la rabbia e la tenerezza di un uomo che non ha mai smesso di credere nel proprio Paese.
Massimo è uno di quegli artisti definiti di nicchia, ma solo per ragioni di mercato. In Italia, di nicchia è chi vende meno dischi. Priviero è di nicchia forse per le classifiche (pur avendo venduto oltre mezzo milione di dischi), ma immenso per qualità e dignità.
Ha rifiutato per tre volte il Festival di Sanremo, restando fedele al proprio linguaggio e alla propria identità. Come ricorda Matteo Strukul nel volume Nessuna resa mai (Marsilio, 2019), rifiutò anche l’offerta di Little Steven – storico chitarrista della E Street Band di Springsteen – che, dopo aver prodotto il suo secondo album Nessuna resa mai(1990), gli propose di trasferirsi negli Stati Uniti per una carriera internazionale. Massimo scelse di restare in Italia, perché la sua lingua, la sua storia e la sua lotta erano qui. Non fu una scelta prudente, ma una scelta di identità. “Ho fanculato la fama e i soldi Per il mio patto con la libertà”.
«Quando ho cominciato, avevo un’idea precisa: volevo scrivere come Dylan e stare sul palco come Springsteen», mi ha confidato Massimo a fine serata. Riascoltando la sua musica, soprattutto il live al Rolling Stone di Milano del 2009, trovo questa affermazione assolutamente credibile. Di Dylan sento la parola cruda, la poesia asciutta, la capacità di dire l’indicibile. Di Springsteen, la fisicità, il senso del palco come luogo morale, la generosità totale nel donarsi al pubblico, fino al limite del dolore. “Dicevo venderò cara la mia pelle Fin quando il mondo non mi ascolterà Finché il mio sogno volerà su nel cielo come campane di libertà”.
Il suo suono affonda nel folk e nel roots rock americano, ma parla italiano. Le sue storie nascono qui: dai padri silenziosi, dalle madri ostinate, dalle strade del Nord, dai ragazzi che partono e non tornano. Priviero ha trasformato l’eredità americana in una lingua nazionale, fatta di dignità, lavoro, amore, rabbia.
Massimo è anche un uomo di mare, davanti al quale è nato e che non ha mai davvero lasciato. Il mare si sente in ogni sua canzone: nostalgia, respiro, memoria, spazio fisico ed emotivo dove tutto accade, vive, muore, in un ciclo infinito. Anche quando canta Milano, il mare è lì: invisibile ma presente, come una bussola che gli impedisce di perdersi nel rumore. “Sulle rive del fronte orientale, guardo il mare che parla col cielo”.
Ama scrivere del suo Paese, rappresentando un’Italia vera, ferita ma non finita, senza fanfare. Con verità, senza sconti né bandiere. C’è rabbia, ma anche pietà. C’è appartenenza, ma senza retorica. Si può essere patriottici senza essere nazionalisti in modo becero. Mia nonna friulana, da bambino, mi faceva ascoltare le canzoni della guerra. Ritrovarle nella musica di Massimo, soprattutto in "Terra e Pace", mi ha commosso. Ho sentito di aver trovato, attraverso radici comuni, un vero brother in rock.
La voce di Massimo è ruvida, poeticamente roboante, carica di verità, connessa con la sua anima fragile e forte. Un ruggito che nasce dal diaframma e arriva al cuore. Un canto che è testimonianza.
Durante la serata, il pubblico era rapito. Ogni nota non era solo emessa, ma scavata. Massimo non si limita a suonare: restituisce. Ti consegna qualcosa che ti riguarda, anche se non sai ancora cosa.
Un artista necessario. Nel ristretto panorama del rock italiano, uno dei pochissimi a non aver mai smesso di credere che le canzoni possano ancora dire qualcosa di vero.
E mentre lo ascoltavo - gli occhi chiusi, i brividi addosso -, seduto accanto a lui al Gogol’Ostello, in una sera d’ottobre, ho sentito chiaramente che il rock serve ancora a ricordarci chi siamo, e perché non dobbiamo smettere di lottare
Articolo del
17/10/2025 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|