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Glasvegas
Glasvegas live @ Circolo degli Artisti - Roma, 11 maggio 2009
Roma
11/05/2009
di
Emanuele Tamagnini
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Alan McGee aveva ragione. L’istinto di un cavallo di razza. Il fiuto del successo. Alan McGee come in quel lontano 1993. Nel piccolo, fumoso, perfierico King Tut’s Wah Wah Hut di Glasgow. Quella sera sul palco cinque ragazzi che dopo tre pezzi McGee definì “fucking brilliant”. Quei cinque ragazzi erano gli Oasis. Dalla stessa bruma. Dalla stessa terra. Dallo stesso locale. Tredici anni dopo Alan McGee è ancora seduto in quel club. Sul palco questa volta ci sono i Glasvegas. Quattro ragazzi che a prima vista mescolano il mito di Elvis, l’inconfondibile suono sessanta di Phil Spector e lo shoegaze dei Jesus & Mary Chain (in una personale visione molto meno nichilista rispetto ai fratelli Reid). Davanti al palco c’è un ex calciatore, James Allan, con quella faccia tosta a ricordare un incrocio tra Joe Strummer e Mike Ness. C’è il cugino alla chitarra, c’è la sorella a far da manager alla combriccola. Ci sono persone semplici. Quelle a cui basta poco per entrare nel cuore della gente.
E il cuore della gente batte forte nel sold out del locale romano. Pienone assolutamente ordinato e festante. Mentre Matilde trova posto su delle stipatissime scalette, dopo essersi fatta largo tra la gente grazie alla spontanea disponibilità di un “grande” amico, i Glasvegas sono già sopraffatti dalle luci rossastre e bluastre e dall’incedere irresistibile di ‘Lonesome Swan’. I Glasvegas sono nei fatti un gruppo shoegaze. Molto più shoegaze nel suono e nella postura di tanti sbarbatelli giovinastri che si professano seguaci del genere. E per questo i Glasvegas sorprendono. Occhiali scuri, maglietta nera senza maniche, ciuffo impomatato, James Allan si contorce sul microfono. Ma quel che più conta è che il quartetto di Glasgow “SUONA”. Avvolge. Rendendo l’atmosfera elettrica. Da ricordare. Non bluffano. Non sono stati costruiti allo specchio. Non hanno l’appeal per finire sulla copertina di Vogue. Non truffano l’ascoltatore con mezzucci e playback.
E’ il rock’n'roll alla base. Quattro accordi, una melodia che riesce a centrifugarti il cervello, tanto sudore, tanti sorrisi, il cuore aperto, e giù a cantare tutte le canzoni. Quello che fa il pubblico nella sua quasi interezza. I pezzi dei Glasvegas sono praticamente degli inni. E sembra di essere ritornati indietro nel tempo. Ai cori da stadio britannici. Con la birra in alto ad ondeggiare. Come faceva il punk della strada dopo il ‘77. Ecco il segreto di questa stregoneria. Aver saputo fondere magicamente suoni ed influenze che tutti noi abbiamo avuto nel background. Suoni che almeno una volta nella vita abbiamo ascoltato. Il Circolo è ormai un contro-coro continuo mentre sfilano via i pezzi del debutto, otto prima del bis, alcuni dei quali vengono diluiti dal tremolo e spediti direttamente al neurone dell’emozione. Allan più volte ringrazia a mani giunte, canticchia “Roma” due-tre volte, si batte la mano sul petto, quasi incredulo/i di tanta manifestazione d’affetto.
Lasciano con ‘Go Square Go’ e vengono richiamati per il bis proprio con il loro brano, da un pubblico sempre più eccitato e divertito. ‘Sad Light’, la “natalizia” ‘A Snowflake Fell (And It Felt Like a Kiss)’ in versione scarna e commovente, il singolo che scatena l’ultima bolgia: ‘Daddy’s Gone’. Picchia forte la paffuta Caroline McKay in piedi davanti a quei quattro pezzi di batteria, l’intero club a cantare a squarciagola, come dentro a una curva. Spunta pure una bandiera scozzese. A testimoniare di quanto la gente abbia voglia di unirsi. Di quanto la gente abbia voglia di stringersi forte. Di quanto la gente abbia bisogno di semplicità. Di nuovi eroi.
(pubblicato per gentile concessione di Nerds Attack!)
Articolo del
14/05/2009 -
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