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Lo intercetto venti minuti prima dell’inizio del concerto, Matthew Houck in arte Phosphorescent, uno dei (secondo me) più sfavillanti talenti della scena indie americana odierna, e mi ci attacco come una mignatta per sfruttare al massimo la rara opportunità di fargli tutte le domande che mi frullano in testa fin da quando due anni fa ho messo le mani su quel suo (terzo) disco-capolavoro intitolato “Pride”. Lui vorrebbe forse scolarsi in solitudine il whiskettino che ha ordinato per sedare la tensione – e, forse, il disappunto – legata al doversi esibire, di lì a poco, di fronte ad una trentina di avventori e spiccioli, ma il sottoscritto non lo molla. E Houck, in definitiva, sembra pure gratificato dal fatto che ci sia qualcuno che lo considera un Genio, stasera, in questo locale semideserto alla periferia del mondo. Mi racconta di essere, in realtà, originario dell’Alabama, e che dopo un periodo trascorso nella fervida scena di Athens, Georgia, si è da poco (da poco prima di “Pride”, appunto) trasferito a Brooklyn, New York, dove ha racimolato la band con cui si esibirà stasera, in cui l’unico “georgiano” che lo ha seguito fin dai tempi di Athens è il tastierista Scott Stapleton. Parliamo a lungo di “Pride”, naturalmente – sublime archetipo folk-gospel che Houck ha realizzato praticamente da solo, suonandone tutti gli strumenti da vera “one-man band” – e del recentissimo “To Willie” composto di cover di brani di Willie Nelson, sua stella polare da quando era bambino e ne sentiva le canzoni in macchina con i genitori. In realtà lui – poveraccio – riesce a parlare poco. Sono io, più che altro, che sento (neanche fossimo a TRL) la necessità di comunicargli come – OK, “To Willie” mi è piaciuto assai – ma il mio gradimento di “Pride” va decisamente oltre, si tratta del resto di uno di quei rarissimi dischi che ti cambia la vita: e a questo punto della mia, di vita, non credevo proprio che mi sarebbe ricapitato di restare così folgorato da una manciata di canzoni. Tutta quest’ammirazione ed entusiasmo devono apparire al malcapitato Houck eccessivi e magari anche molesti, perché a un certo punto con fare deciso seppur gentile si smarca e mi saluta, con la scusa che l’ora è tarda e il concerto ha da cominciare assolutamente.
E l’esibizione dei Phosphorescent naturalmente non delude, nonostante lo scarso e frastagliato pubblico pagante. Per me, finora, il concerto dell’anno. Accompagnato da Stapleton al piano, da Jeff Bailey al basso, da Chris Marine alla batteria e da Anderson Ainslie alla chitarra, Houck propone il miglior inizio possibile, l’evocativa “A Picture Of Our Torn Up Praise” (da “Pride”) in una versione che rispetto all’originale incorpora qualcosa delle atmosfere country del recente “To Willie”. Comunque miracolosa, seppur in modo diverso. Poi, sempre da “Pride”, la quasi-preghiera di “At Death A Proclamation”, e quindi arriva il momento dell’alt-country per (e di) Willie Nelson. Da “To Willie” i Phosphorescent eseguono (stranamente) solo tre canzoni: l’ormai classica “Reasons To Quit” ovviamente, passando per la struggente “Too Sick To Pray” per finire con “It’s Not Supposed To Be That Way” che lascia tutti a bocca aperta. Anche perché Houck - particolare che sui dischi resta in secondo piano - ha una bellissima voce dalla grande presenza e la sa usare che meglio non si può. Ma il meglio deve ancora venire: è “Wolves”, forse il picco compositivo assoluto di Matthew Houck (sempre dall’imprescindibile “Pride”), intensissima ballata folk-gospel dalle liriche che farebbero la gioia di un analista freudiano (“Mama there's wolves in the house / mama they won't let me out /mama they're mating at night”). Tra una bevuta e l’altra (evidentemente Houck non ha ancora abbastanza “reasons to quit”), i Phosphorescent eseguono una delle loro migliori canzoni del periodo “georgiano”, “I Am A Full Grown Man (I Will Lay In The Grass All Day)” tratta dall’irreperibile “Aw Come Aw Wry” del 2005, in una versione che anch’essa risente indubbiamente del nuovo andazzo alt.country. E la prima parte del concerto si chiude con un inedito, la cadenzata “I Wish I Was In Heaven Sometime” che forse farà parte del prossimo album. O forse no.
Siamo solo in tre-quattro a fischiare e battere le mani per ottenere un bis, ma Houck educatamente torna sul palco lo stesso. Dapprima in solitario, per una eccellente versione chitarra-voce di “Not A Heel” (da “Aw Come Aw Wry”); quindi, raggiunto dalla band, si produce in una versione eccezionale di un classico dei classici del country-folk, “Harvest” di Neil Young. E’ un brano che ho ascoltato miliardi di volte e che potrebbe con facilità generare un effetto “karaoke”, ma la performance vocale di Houck, pur molto rispettosa dell’originale, è sincera e coinvolgente, e riesce a ridare nuovamente una patina di freschezza a questo antichissimo cavallo di battaglia younghiano. Insomma: un finale da sperticarsi le mani, ancor più se si pensa che dopo la fine del concerto Houck mi rivela che è la prima volta che la band l’ha suonata dal vivo, senza averla mai praticamente provata.
Per conto mio, gli do l’assillo ancora per una decina di minuti, implorandolo (!) di insistere sulla via southern-gothic-folk-gospel tracciata con “Pride” e ottenendo rassicurazioni sull’uscita di un nuovo album entro la fine dell’anno. Poi, finalmente, lo lascio in santa pace, libero di scassarsi il fegato con uno dei suoi amati intrugli alcoolici, e tornato a casa scrivo di getto un entusiastico report in onore del Genio venuto dall’Alabama. QUESTO.
(la foto di Matthew Houck in azione all'Init Club è è dello stesso autore del report)
Articolo del
06/06/2009 -
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