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Preciso subito una cosa: non sarò obiettivo. Per me i Lynyrd Skynyrd sono più di una band: sono il legame indissolubile con la mia adolescenza e la mia giovinezza, passate ad ascoltare e a (indegnamente) suonare rock-blues nei peggiori posti immaginabili insieme a improbabili ma appassionati compagni di viaggio della mia risma. (E ancor oggi, a 45 anni, non demordo). A ciò si aggiunga che, pur avendo visto – sempre e solo in televisione – decine se non centinaia di video, concerti, interviste, speciali, rassegne, memoriali e quant’altro sugli Skynyrd, non avevo mai visto la band dal vivo, e dunque aspettavo questa occasione da più di trent’anni, da quando, cioè, un mio grande amico, vicino di casa e compagno di merende (Gigi ti sarò sempre grato – anche – per questo) si presentò a casa mia – anno 1976 (e noi due: anni 12) – con una copia di Second Helping, lo stra-mitico album (del 1974) che conteneva, fra gli altri capolavori, Call Me The Breeze e, soprattutto, Sweet Home Alabama (e, come avrebbe detto il grande Peppino, ho detto tutto!)
Premessa, doverosamente, la mia mancanza di obiettività, devo aggiungere, obiettivamente (!), che il concerto di Milano è stata una grandissima emozione per me e per tutti gli oltre 10.000 del Palasharp. Musica ad altissimo impatto emotivo, scaletta a prova di bomba (solo ultra-classici e neanche una canzone del nuovo attesissimo album God And Guns, in uscita a settembre) e musicisti ispirati e perfettamente a proprio agio. Va detto che, della band originaria, è sopravvissuto – in senso letterale – il solo, grandissimo, chitarrista Gary Rossington, affiancato da Johnny Van Zant, fratello minore – con voce migliore ma con molto meno carisma – dell’originario cantante Ronnie (morto nell’incidente aereo col quale si aprì la lunga serie di lutti e sciagure che, incessanti, hanno poi colpito la band nel corso degli anni) e da un manipolo di eccellenti turnisti che hanno fatto degli Skynyrd attuali quasi una tribute band del gruppo originario. Ma, evidentemente, l’energia che sprigiona dai classici della band è sufficiente a trasmettere emozioni fortissime al pubblico e agli stessi musicisti.
Si parte alle 21,30, con la canonica mezz’ora di ritardo accademico. L’intro di Workin’ For MCA fa scattare in piedi il pubblico delle tribune e mette in movimento quello – già in piedi – del parterre, che seguirà e sosterrà la band ballando e cantando per tutto il concerto. I musicisti danno da subito tutto e la gente lo sente, ricambiando. Si prosegue con I Ain’t The One, Saturday Night Special e What’s Your Name in rapida sequenza. Rickey Medlocke e Mark Matejka alle chitarre supportano e intersecano egregiamente la chitarra di Rossington, vera star della serata, e le tastiere di Peter Keys, all’inizio mal regolate e troppo rumorose. A questo punto, col pubblico ormai completamente preso, Van Zant si raccoglie e, a voce bassa, una voce onesta e provata, annuncia di voler dedicare la canzone successiva a tutti i numerosi membri degli Skynyrd scomparsi negli anni, ma soprattutto a Billy Powell, storico tastierista della band morto d’infarto a gennaio scorso, a Ean Evans, penultimo bassista del gruppo, morto meno di un mese fa di cancro. Parte l’arpeggio di chitarra di Simple Man: un brivido fortissimo di vera commozione si abbatte come una frustata sulla sala. Accendini tamarri a parte (compreso naturalmente il mio), si percepisce – quasi fisicamente – l’amore immenso delle persone presenti – quasi tutte non giovanissime – per la band. La canzone si conclude in un uragano di applausi, con Rossington e Van Zant che si abbracciano forte. Si riprende con That Smell, pezzo scritto in occasione di un grave incidente d’auto nel quale fu coinvolto proprio Rossington (e dal quale – stranamente, visto l’andazzo della band – uscì vivo), e si va avanti spediti con Whiskey Rock-A-Roller e con il medley composto dal rock’n’roll di Down South Jukin’, da Needle And The Spoon e da Double Trouble. Michael Cartellone alla batteria e Robert Kearns al basso spingono molto e bene; le due coriste, Dale Krantz-Rossington, moglie di Gary (ed ex vocalist dei dimenticati ma grandi 38 Special), e Carol Chase, cantano il giusto, anche se non sono sempre precise. Il medley si arresta all’improvviso con l’ingresso in scena di un armonicista, che suona un paio di giri bluesy, dopodichè, mentre un lungo brivido scuote di nuovo l’audience, parte il riff introduttivo di Tuesday’s Gone. Difficile spiegare cosa significhi sentire più di 10.000 persone cantare all’unisono una delle ballate più belle della storia della musica rock. Sento che dentro di me si rompe senza dolore qualcosa che aspettava da trent’anni; penso che non vorrei essere per nessun motivo in alcun altro posto; sento perfino che il tizio minaccioso e corpulento accanto a me, che ha più tatuaggi che capelli, in fondo non è poi così male. Tutto questo – tatuato a parte – scoppia infine del tutto dentro di me quando, dopo il primo chorus, iniziando il celebre solo di piano, Peter Keys alza lo sguardo e l’indice della mano sinistra al cielo, così dedicandolo al grandissimo Billy Powell. Gimme Three Steps rompe l’incantesimo e introduce la parte finale del concerto, che comincia con Call Me The Breeze, storico mid tempo di J.J. Cale reso “violento” e trascinante dagli Skynyrd nel già citato Second Helping, e si conclude con Sweet Home Alabama – che porta al parossismo l’estasi del pubblico, ormai incontenibile – e, naturalmente, dopo una breve uscita dal palco, con Free Bird – canzone originariamente scritta per commemorare Duane Allman, leader dell’Allman Brothers Band all’epoca da poco scomparso, e poi diventata l’inno commemorativo dei membri scomparsi degli Skynyrd – durante la quale Van Zant si cambia d’abito e, imbracciata una chitarra, sostituisce Matejka e si unisce a Rossington, a Medlocke e a Kearns. Socchiudi gli occhi e rivedi, attraverso una lente un po’ deformata e scolorita, Leon Wilkeson, Steve Gaines, Allen Collins, Gary Rossington giovanissimo. Il piede destro appoggiato sulla cassa-spia, il corpo che ondeggia avanti e indietro, lo sguardo perso. E’ un vero incantesimo, una magia che sospende e poi annulla tempo e spazio. L’effetto sul pubblico è devastante; la gente canta, balla, suda, piange, si abbraccia senza ritegno e con gioia profonda. In passato c’è voluto ben altro – e molto meno sano – per farmi sentire, stare così.
Alla fine, dopo il pianto, la commozione, l’adrenalina e il piacere profondo, non resta che andar via. Felici, storditi, grati. Non sono stato obiettivo, come previsto. O forse sì. And this bird you’ll never change.
Articolo del
10/06/2009 -
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