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Nel momento in cui era stato annunciato, si era pensato ad un tour di basso profilo. Che sarebbe servito a Carl Barat – nell’inedita veste di troubadour voce e chitarra acustica - per leccarsi le ferite dopo l’oggettivo fallimento dell’esperienza Dirty Pretty Things, la sua band che - a differenza dei Babyshambles dell’antico sodale nei Libertines Pete Doherty - non è mai riuscita davvero a decollare e che dopo il fallimento del secondo album “Romance At Short Notice” è tristemente implosa non più di otto mesi orsono. Poi, però, a dare man forte a Barat (uno che nel ruolo di battitore libero non è e non sarà mai a suo agio) è calato il fedelissimo Anthony Rossomando già chitarra dei DPT, quindi si è unito al duo, volando diretto da Parigi, anche Drew McConnell bassista dei Babyshambles, e infine la line-up è stata completata con l’aggiunta della violoncellista Edith Langley e del batterista Donald Bannister. Alla fine, insomma, quella di Barat a Roma si è rivelata una rock gig a tutto tondo, aldilà di certe sonorità più ricercate messe in campo dal contrabbasso talora usato da McConnell e dal violoncello della Langley. Ma partiamo dall’inizio.
Facciamo intanto i complimenti ai ragazzi della Keep It Yours, organizzatori della serata, che le hanno azzeccate proprio tutte: a partire dalla location anomala (praticamente un loft con tanto di terrazza sul fiume Aniene) ma funzionale, passando per un ottimo dj set targato ovviamente UK per arrivare al riuscito coinvolgimento della gioventù anglofila della Capitale, il cui incontenibile entusiasmo ha conferito all’estemporanea calata dell’ex-Libertine il crisma dell’”evento”. Si tratta – e lo abbiamo rimarcato più volte – di una fascia di pubblico tra i 20 e i 30 anni, per cui i Libertines a suo tempo (sei-sette anni orsono) sono stati una sorta di “big bang” musicale: né più né meno quello che furono gli Stone Roses per la generazione “acid/Madchester” o, andando più a ritroso negli anni, i Sex Pistols e i Clash per i ragazzi dell’epoca punk. Era stato peraltro annunciato che Carl Barat avrebbe dato fondo al repertorio della sua prima band (a differenza di Pete Doherty che oggi dal vivo lo esegue raramente): ecco dunque il motivo di una spasmodica attesa, che viene soddisfatta solo intorno alla mezzanotte e un quarto, quando Barat in solitario, giacca cravatta e ciuffone d’ordinanza, appare al microfono imbracciando una chitarra acustica ed inizia ad intonare “9 Lives”, brano inciso due anni fa da Barat e Rossomando per l’album benefico “Love Music Hate Racism”; quindi un altro brano poco noto, quella “Ballad Of Grimaldi” che faceva parte del primissimo repertorio dei Libertines, seguita da “France”, un’altra ballata libertiniana a cui Barat dev’essere particolarmente affezionato (e che eseguiva anche ai primi concerti dei DPT). Un avvio in tono minore quindi, ma al pubblico, caldo com’è, basta poco per esplodere; basta che in scena arrivi Anthony Rossomando e che i due eseguano una “What A Waster” fulminante perché l’iniziale compostezza si disintegri in dei pogo e crowdsurfing furibondi. Man mano si presentano sul proscenio anche McConnell (salutato da un’ovazione), la Langley e Bannister, e arrivano uno dopo l’altro i sospirati brani dei Libertines (e anche quelli dei DPT, va detto, sono ben accolti). Barat ha la voce “shot” (come dice lui) dai concerti dei giorni prima, ma dal mazzo emergono lo stesso una ubriaca e ubriacante “Blood Thirsty Bastards”, una eccellente “Music When The Lights Go Out”, un'apprezzabile “Deadwood”, e due buone “The Man Who Would Be King” e “BURMA”. Fatti i dovuti conti, si pesca più dal primo che dal secondo album dei Libertines, e quasi nulla dal secondo insulso DPT. Da questo non trova spazio neanche il singolo sub-kinksiano “Tired Of England”, e per quanto ci riguarda va bene così.
Ma il vero punto di non ritorno per un pubblico già genuflesso è il bis: tre pezzi che – con le non eseguite “Up The Bracket” e “I Get Along” - rappresentano il meglio del rock libertiniano: nell’ordine, “Don’t Look Back Into The Sun”, “Can’t Stand Me Now” e “Time For Heroes”. Peccato solo che il combinato disposto tra impianto audio (mediocre) e urla/strilla dei supporters faccia sì che di musica, durante questa bolgia finale, se ne senta molto poco in un effetto che ricorda quello dei Beatles all’Hollywood Bowl. Dovrebbe finire qui. Dovrebbe finire con l’inimitabile inno generazionale di “Time For Heroes” ma Barat & Co. si lanciano invece nell’esecuzione di un ulteriore ultimo brano, “Bang Bang You’re Dead”, forse l’unico del repertorio DPT in grado di non sfigurare troppo a fianco di quelli dei Libertines, e solamente all’1 e mezza di notte le luci si riaccendono invitandoci a tornare tutti a casa
Serata in definitiva divertente e ricca di spunti, nonostante la scadente forma vocale di Barat. In questo solstizio d’estate 2009, però, il suo futuro di artista appare quanto mai incerto. Barat solo infatti sembra un pesce fuori dall’acqua, e non pare in grado di avviare una carriera solista di successo né di dar vita ad un nuovo gruppo significativo: gli manca, probabilmente, il talento di Doherty, e anche la sua incoscienza. D’altro canto, a soli 31 anni è un po’ presto per diventare un intrattenitore da golden oldies, e continuare a fare concerti basati unicamente sul repertorio dei Libertines e poc’altro di residuale come alla (storica, a questo punto) serata del Lanificio. Ma forse Carl Barat sta solo prendendo tempo in attesa di Pete Doherty per una (da tutti) auspicata reunion dei Libertines. E prima o poi è anche presumibile che Doherty darà il suo assenso all’amico e collega di un tempo. Non è certo un problema di se ma di quando. E di tempo Barat, a questo punto, non sembra averne molto.
(la foto di Carl Barat in azione al Lanificio 159 è dello stesso autore del report)
Articolo del
23/06/2009 -
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