|
Strana, stranissima accoppiata quella tra Ry Cooder e Nick Lowe insieme sullo stesso palco, due che a prima vista paiono “azzeccarci” davvero poco. Il primo – il losangelino Cooder – un mostro sacro della chitarra blues e non solo, in giro già dalla metà dei ’60 con Captain Beefheart (vedi il primo seminale album con la Magic Band) e Taj Mahal (nei Rising Sons) e in seguito autore di pregevolissimi album solisti e colonne sonore che hanno fatto epoca nel suo personalissimo stile chicken skin music, nonché musicologo dai vastissimi interessi: blues, folk, tex-mex, musica hawaiana, tradizione cubana ecc. ecc. L’altro - il britannico Nick Lowe - rivelatosi con i pub rockers Brinsley Schwarz nei primi anni ’70 e divenuto in seguito uno dei deus ex-machina dell’era punk (produsse tra l’altro l’esordio dei Damned) e new wave (scoprì il giovane Declan McManus che ribattezzò Elvis Costello) oltre che singer/songwriter globalmente apprezzato (e come non citare la sua dolente ballata “The Beast In Me” ripresa da Johnny Cash nel primo volume delle American Recordings con Rick Rubin?). Poi, a pensarci bene, un punto di contatto tra i due esiste – anzi, è esistito – nel lontano 1992 quando Cooder e Lowe parteciparono al supergruppo Little Village insieme a John Hiatt, esperimento però di breve durata e non molto convincente.
C’era quindi grande curiosità nel vedere cosa avrebbero potuto proporci i due (grandi entrambi ma per ragioni del tutto diverse) artisti. La serata però comincia subito male, quando viene annunciato che Flaco Jimenez - uno dei più talentuosi fisarmonicisti tex-mex in circolazione – previsto nella line-up, non sarà della partita perché causa problemi di salute è rimasto a casa sua a San Antonio in Texas. Peccato, perché le coloriture di Flaco erano importanti e la performance, in qualche modo, ne risentirà.
Eccoli comunque manifestarsi in una Sala S.Cecilia bella gremita nonostante i prezzi non certo popolari (70 - 80 euro): al basso Lowe, alto e secco e silver fox più che mai, che con un paio di occhiali da miope pare uno di quei pensionati che si incontrano sulle spiagge di Hastings e Brighton, mentre Cooder è immutabile con la consueta camicia hawaiiana multicolore divenuta un suo tratto caratteristico almeno quanto la Fender perennemente a tracolla. Li accompagnano il figlio di Ry, Joachim Cooder alla batteria e due coriste tanto brave quanto di bella presenza, una delle quali, Juliette Commagere, ha anche da poco avviato una propria carriera solista.
Fin dalle iniziali “Fool Who Knows” – brano tratto dall’LP dei Little Village cantata da Nick Lowe - e “Vigilante Man” – la celebre cover di Woody Guthrie – eseguita da Cooder, è ovvio che si tratta di uno dei concerti più squilibrati mai visti negli ultimi anni. Semplicemente non c’è partita: Ry batte Nick almeno per 6 a 0, un vero cappotto. Questione di genere, forse: le canzoni power-pop di Nick Lowe, cantate da un sessantenne, fanno uno strano effetto di nostalgia fine a sé stessa, pallido ricordo di un passato glorioso, mentre i blues di Ry Cooder sono vivi, palpabili, pieni di tensione. A differenza di Lowe, che a questo punto della sua vita e della sua carriera sembra aver dato quanto poteva dare, Cooder oggi è un’artista ancora nel pieno della sua parabola artistica, come anche i suoi album più recenti (“I, Flathead”, “Chavez Ravine”, Mambo Sinuendo”) stanno a dimostrare. Eppoi la grande tecnica, la classe nel dimostrarsi maestro della slide guitar, l’incredibile voce sofferta. Un vero gigante, il chitarrista di base a Santa Monica. Con tutto l’affetto che nutro per lui (ed è tanto), di fronte a tanta classe ed autorevolezza Nick per tutta la durata del concerto è ridotto a fare la spalla, l’amicone simpatico dalla battuta facile a cui di tanto in tanto è concesso cantare una canzone o due, se non altro per giustificare il double bill (chissà perché, però, non fa “So It Goes” e “Cruel To Be Kind”, due brani basilari della new wave inglese fine anni ’70). E comunque la porzione (maggioritaria) del concerto riservata a Cooder vale da sola il prezzo del biglietto: “Fool For A Cigarette/Feelin’ Good”, “The Very Things That Make Her Rich (Make You Poor)”, “Every Woman I Know Is Crazy ‘Bout An Automobile”, “How Can A Poor Man Stand Such Times And Live?”, “Down In Hollywood” e “Jesus On The Mainline” sono seguite da vere e proprie ovazioni, anche se Cooder dà l’idea di non essere del tutto soddisfatto della loro resa, forse conscio del fatto che l’assenza di Flaco Jimenez priva il sound di un elemento non di poco conto.
Fatto sta che il concerto dura davvero troppo poco: dopo un unico bis (Lowe alle prese con “(What’s So Funny About) Peace Love And Understanding”, storico brano dei Brinsley Schwarz reso celebre da Costello, e Cooder a sprigionare fuoco e fiamme con una scatenata “Little Sister”) le luci si riaccendono inopinatamente, dopo solo un’ora e 10 minuti di musica, appena più del minimo sindacale.
Una serata storta? O è proprio il tour che è nato male con l’improvvisa defezione di Flaco? Una sola cosa è certa dopo questa stranissima sbilanciata serata: che se Ry Cooder tornerà da queste parti (sperabilmente in solitario) andare a vederlo non sarà più un’opzione. Piuttosto un obbligo.
(La foto di Nick Lowe in concerto all'Auditorium di Roma è dello stesso autore del report)
Articolo del
30/06/2009 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|