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Ormai sapete già tutto sul concerto romano di Springsteen. A giudicare dai reportage di Tv e giornali parrebbe si sia trattato di un trionfo: “Springsteen incanta Roma” (ADN Kronos), “Il Boss conquista Roma” (Corriere della Sera), “Bruce infiamma l’Olimpico” (Il Messaggero) solo per citare alcuni titoli. Insomma, il solito vecchio Springsteen usato sicuro, in grado di elettrizzare come sempre una platea con tre ore (3!) di sano, sincero e genuino rock and roll.
La storia che voglio raccontarvi io invece è ben diversa. Ma prima di farlo devo svelare le carte. Per me Springsteen è (ed è sempre stato) il Nemico n.1, l’antitesi di tutto ciò che io ritengo buono e giusto nell’ambito della musica, della poesia e dell’arte in generale. Lo considero un riciclatore populista, una sorta di Vasco Rossi in salsa a stelle e strisce, autore di testi zeppi di cliché e ipocrisie. Ma aldilà di tutto, per me Springsteen sconta due grandissime colpe: la prima e la più incancellabile è quella di avere, nei per altri versi innovativi anni ’80, riportato indietro le lancette della musica a livello di revival del rock’n’soul anni sessanta, con l’aiuto non di poco conto di una critica a lui assupinata. La seconda colpa è che, in fin dei conti, Springsteen di talento ne ha – come provato dai primi due adorabili album, da diverse tracce di “Born To Run” e “Darkness On The Edge Of Town” e a macchia di leopardo anche dalla produzione successiva - ma ha scelto di farne il peggior uso possibile, preferendo puntare su un becero minimo comun denominatore che tuttora gli consente di vendere milioni di dischi e biglietti di concerti.
Per questi e per tanti altri motivi – su cui potrei scrivere un vero e proprio trattato ed un giorno non è detto che non lo faccia – detesto Springsteen e ciò che rappresenta, e prima dell’altra sera non mi ero mai degnato di andarlo a vedere dal vivo anche se erano anni (anzi decenni) che amici e conoscenti mi dicevano che “i suoi sono show travolgenti e dopo che avrai visto un concerto del “Boss” cambierai opinione”. Ebbene stavolta ho ceduto e ci sono andato, conscio che la serata sarebbe stata lunga (tre ore!) e burrascosa e che non si sarebbe trattato di un concerto come gli altri. Piuttosto di una sfida, con tanto di vinto e vincitore. Il primo contatto ravvicinato con la mia nemesi storica è così’ avvenuto alle 22.30 in punto, quando sulle note di “C’era una volta in America” di Morricone lanciate dagli altoparlanti a mo’ di intro, è arrivata sul proscenio la E Street Band (i “soliti” Little Steven, Nils Lofgren, Roy Bittan, Clarence Clemons e Max Weinberg, più altri comprimari). E poi Lui, di nero vestito, forse per smorzare la chiattaggine avanzante, la chitarra impugnata springsteenianamente come fosse un mitra, che a vederlo sullo schermo gigante pare quasi uno dei Sopranos a fianco del Soprano vero: “Tony” Little Steven altresì detto “Miami” Steven Van Zandt. L’avvio mi coglie impreparato: “Badlands”, uno dei famosi tre-quattro degni episodi da “Darkness...”, e “Out In The Street”, forse il mio pezzo preferito dall’altrimenti disprezzato “The River”. Razionalmente storco il naso su alcune liriche dei due brani, contenenti il peggio del peggio della retorica “working class” springsteeniana (“I work five days a week girl / Loading crates down on the dock” da “Out In The Street”: detto da una rockstar stramiliardaria mi ha sempre fatto specie) ma dal vivo trasmettono talmente tanta energia che io stesso, anti-springsteeniano dichiarato, quasi quasi mi trovo a cantarne con foga i versi. Resto basito: 2 a 0 per il “Boss” e palla al centro.
Effettivamente Springsteen sembra indemoniato, scorrazza tra la folla non dimostrando affatto i suoi (quasi) 60 anni, la sua intesa con Little Steven e Clemons è impressionante e la band è affiatata e puntuale come poche. Ma i passi falsi, che aspetto con ansia, arrivano puntualmente. E sono ben 4 di fila. Prima “Outlaw Pete”, poca cosa da quel mediocre album che è l’ultimo “Working On A Dream” (lo dicono anche gli springsteeniani, quindi sarà vero), quindi una insostenibile “No Surrender” da “Born In The USA” (...”no defeat baby no surrender...”, ennesima storia di poveri cristi oppressi da qualcuno o qualcosa); poi c’è “She’s The One”, gagliarda ma pur sempre uno dei brani meno convincenti di “Born To Run”, e l’incongrua canzoncina “Working On A Dream” title-track dell’ultimo album, davvero moscia.
Siamo 4 a 2 quando il Boss in un approssimativo italiano ci dice «E’ bello essere nella città più bella del mondo. Siamo venuti da mille miglia per mantenere la nostra solenne promessa. Stasera costruiamo una casa, una casa di musica, di spirito e rumore. Noi portiamo la musica. Abbiamo bisogno che Roma porti il rumore. Bring the noise!». Città più bella del mondo? Inutile lecchinaggio che vale al “Boss” la detrazione di un punto precedentemente guadagnato. 4 a 1 quindi.
Qui però la E Street Band porta davvero il “rumore” con tre brani consecutivi che rialzano le quotazioni del concerto: “Seeds”, vecchio brano che risale agli anni ’70, “Johnny 99” che preferisco nella versione di Johnny Cash ma comunque non dispiace neanche qui, e una strepitosa “Atlantic City” che – perdonate l’ignoranza – conoscevo solo nella mesta versione di “Nebraska” e che in questa versione con la E Street Band raggiunge vette di grande intensità e coinvolgimento emotivo. E sì: ne ha di talento, Springsteen, quando vuole, e fa ancora più rabbia. E siamo 4 pari.
Il gospel di “Raise Your Hand” porta Springsteen a spasso per il palco a farsi abbracciare dai fan ma pare più che altro un interludio “da concerto”; è poco efficace – dal vivo – “Hungry Heart” brano chiave di “The River”, e “Pink Cadillac” è un altro di quei rock and roll springsteeniani che non mi hanno mai fatto impazzire. La serata perde quota e si rialza solo grazie all’atmosferica “I’m On Fire”, “il” classico senza tempo di “Born in The USA” (specie senza il supporto visivo di quel risibile video in cui Springsteen fa la parte del meccanico innamorato). Ma “Surprise Surprise” da “Working On A Dream” è un’altra canzonetta priva di spessore, e “Prove It All Night” che in teoria è il mio pezzo preferito da “Darkness...” è suonata in maniera meccanica, senza la (consueta) enfasi springsteeniana che il brano richiederebbe. Non va meglio con “Waiting On A Sunny Day” da “The Rising” e scorrono fiumi di tritissima retorica su “The Promised Land” da “Darkness...”, un altro di quei pezzi del “Boss” che mai sono riuscito a digerire. Ottima, invece, “American Skin”, mentre risultano senza infamia e senza lode due episodi di “The Rising”, “Lonesome Day” e la title-track.
Il mio personalissimo tabellino, impietoso, a questo punto dice che Springsteen è sotto di 4 punti. Ma a questo punto l’uomo in nero piazza il colpaccio. “Born To Run” è formidabile, la migliore versione che abbia mai sentito in vita mia. A Olimpico per l’occasione interamente illuminato, la storia della fuga di Brucie e Wendy in un’autostrada “jammed with broken heroes on a last chance power drive” prende prodigiosamente vita con quarantamila persone che all’unisono cantano “...tramps like us, baby we were born to run…!” Sono senza parole. Mi sento munifico e per questa strabiliante performance concedo al “Boss” ben 5 punti, mandandolo in vantaggio 11-10.
Dopo un breve intervallo, Bruce riappare in scena e dedica – alla Bono - un pensiero alla gente dell’Aquila, prima di iniziare a cantare “My City Of Ruins”, brano che compose in quattro e quattr’otto (e si sente) per la sua New York dilaniata dall’11 settembre. Tutto ciò, come al gioco dell’oca, gli vale 2 punti di penalizzazione causa vacuo e fastidioso populismo. Riacquista però un punto per “Thunder Road”, altro imprescindibile brano di “Born To Run” – eseguita benone ma non al livello della title-track.
Temo che ci si accinga ad un gran finale in grado di spazzare via le mie certezze, ma invece arriva l’inutile “You Can’t Sit Down”, cover di un vecchio brano rock and roll dei primi anni ’60, roba da festa paesana. Esilarante invece “American Land” (dalle recenti “Seeger Sessions”) in versione da giga irlandese con tanto di mamma Springsteen che sale sul palco a ballare col figlio. Come e meglio dei Pogues nel loro periodo d’oro, nulla da dire. Ed è ancora pareggio, porca miseria.
Ma Springsteen si affossa da solo. “Bobby Jean” e “Dancing In The Dark” (con tanto di ragazza estratta dalla folla e fatta salire a ballare sul palco come nel video) sono brani vecchi di 25 anni legati all’epoca del sopravvalutato “Born In The USA” e destano solo ricordi ma non emozioni. In chiusura poi la E Street Band la butta – come si dice a Roma – “in caciara” con una stramassificata versione di “Twist And Shout” che a un certo punto si tramuta ne “La Bamba”, fatta apposta per fomentare e far ballare le prime file. Finisce così con il “Boss” indietro 12 a 15, che diventa un più dignitoso 14 a 15 grazie alla generosità del sottoscritto che galantemente gli concede un paio di punti in più per NON aver eseguito “The River” e “Born In The USA”, ossia i due brani che considero il nadir della produzione springsteeniana.
Il “Boss” ha perso la sfida, come da me auspicato, e allora alla fine della pugna riesco anche ad ammettere che sì, effettivamente è un abilissimo showman in grado di reggere (e di non far sentire!) 3 ore 3 di musica a rotta di collo, e che il concerto di stasera è stato anche molto divertente nonostante - o magari a causa - del suo connotato “nazional-popolare”. Poi però all’uscita dall’Olimpico sento qualcuno che paragona Springsteen a Dylan, e a quel punto torna in me l’indignazione di sempre.
SETLIST: Badlands Out In The Street Outlaw No Surrender She's The One Working On A Dream Seeds Johnny 99 Atlantic City Raise Your Hand Hungry Heart Pink Cadillac I'm On Fire Surprise Surprise Prove It All Night Waiting On A Sunny Day The Promised Land American Skin Lonesome Day The Rising Born To Run
My City Of Ruins Thunder Road You Can't Sit Down American Land Bobby Jean Dancing In The Dark Twist & Shout/La Bamba
Articolo del
22/07/2009 -
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