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Che cosa può regalare Milano ad un parco? Senza dubbio quella imprescindibile tonalità di grigio che caratterizza il capoluogo lombardo. Il parco è verde, ma è anche una ex cava dotata di laghetto artificiale, zanzare a iosa (nonostante la disinfestazione) e di un anfiteatro a ridosso della collinetta dalla quale si può intravedere il vicino centro commerciale. Da queste parti il concetto di “parco” è una cosa così.
Questa insolita location, comunque a suo modo affascinante, ha il compito di ospitare i Mercury Rev, una di quelle band che non si fatica a definire fondamentali. E ti aspetti un parco gremito, un’affluenza degna dei giorni migliori o per lo meno qualcosa del genere. Niente di tutto questo: platea per così dire “tecnica”, fatta di stampa specializzata accreditata e affezionata e poca gente pagante (ma ugualmente preparata ed affezionata). I capelli sono brizzolati e i posti liberi molti. Duecento persone al massimo. Il lato positivo è che se voglio posso arrivare in prima fila in un niente. Il lato negativo è che è veramente uno spreco. Mi accomodo in gradinata sorseggiando birra e facendo quello che faccio di solito ai concerti, ovvero tendere l’orecchio a chi racconta di esperienze passate, a quel tale che ha visto i Cure nel ’92 sotto la pioggia, che ha chiacchierato con Martin Gore e che un concerto come quello di stasera non se lo sarebbe perso per niente al mondo. Questo per dare un’idea della grandezza dei Mercury Rev: c’è chi li considera alla pari di Depeche Mode e Cure, e personalmente non mi sento di dargli torto. La differenza è che siamo in pochi a pensarla così.
Cosa ha detto il palco invece? Jonathan Donahue ha portato per mano una band lungo i sentieri della psichedelia, del dream pop a tinte variopinte che non disdegna di deviare e di sperimentare giocando a fare il dark e il post. Il palco non ha decorazione, si presenta ornato solamente dagli strumenti e dal suono. Quasi due ore di distorsione, di elettricità a tratti dolce, assiduamente aggressiva. C’è di tutto nella scaletta presentata, c’è un mondo dietro alla voce di Donahue che si dimena e cerca di stare in equilibrio su un piede solo, in balia di sferzate sonore che travolgono. Ci sono i Mercury Rev sul palco, un pezzo di storia della musica sullo sfondo di una cava che comincia a sfumare progressivamente nel buio della notte. C’è qualcosa di strano in tutto questo: la musica avvolge, ti ritrovi immerso fino al collo ma l’esperienza invece che espandersi in un fruire collettivo si chiude a riccio. E ti accorgi che Donahue lancia occhiate e sorride, ma non sta guardando te, non guarda nessuno in platea. Allucinante. Sta guardando qualcosa che vede solo lui, è preso completamente dalla sua musica. Sean Mackiowiak non sta suonando la chitarra per noi, la suona per qualcosa che noi non vediamo, così come fanno rispettivamente tutti gli altri membri della band. E io non sto ascoltando i Mercury Rev nel bel mezzo di un anfiteatro in un parco: sono in un posto tutto mio. E’ questa la loro forza, è questo il loro potere. Per tutta la durata del live l’equilibrio resta costante, la discesa verso nuovi luoghi della mente ininterrotta tanto quanto il viaggio a ritroso nella discografia della band, dal recente Snowflake Midnight fino al primo Yerself Is Steam del ’91 passando per All Is Dream e dal capolavoro assoluto Deserter’s Song. E va bene così, va bene essere in pochi perché non significa niente: potevamo essere in cinquanta, potevo esserci solo io, sarebbe stato lo stesso. All Is Dream appunto. Il set è stato molto intenso e piacevole. Ovviamente non conviene star qui a sottolineare l’occasione persa per dimostrare un certo attaccamento e perché no, riconoscenza verso questa band, quanto invece mi sembra necessariamente dovuto mettere in risalto la grandissima qualità della stessa, a conferma che sono questi gruppi che hanno dato una svolta proiettandosi almeno vent’anni in avanti quando nessuno se lo aspettava o era in grado. A conti fatti non un live che passerà alla storia, ma sicuramente rimarrà nel cuore di chi ha avuto la fortuna di poterli sentire, e che a questo punto ha anche il merito di essere andato a sentirli.
Perché si può giocare a fare gli esperti tecnici quanto vuoi, si possono conoscere i gruppi che non conosce nessuno per il gusto di vantarsi, ma se non hai sentito i Mercury Rev almeno una volta nella vita equivale a non aver mai sentito i Radiohead, i Cure o i Depeche Mode quando ne hai avuto l’occasione, almeno una volta nella vita: è una mancanza madornale che in pochi hanno colmato in questo caldo lunedì di luglio.
SETLIST: Snowflake In A Hot World October Sunshine The Funny Bird You’re My Queen People Are So Unpredictable Tonite It Shows Frittering Evening Of Light (Nico cover) Tides Of The Moon Holes Dream Of A Young Girl As A Flower The Dark Is Rising Senses On Fire
Goddess On A Hiway
Articolo del
23/07/2009 -
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