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La prima serata del festival Italia Wave terminato domenica 19 luglio poteva contare su ottimi requisiti. Il primo è che l’ingresso era gratuito, che in tempi di vacche mai così magre non è cosa da poco; il secondo è che al concerto avrebbero preso parte, oltre ai neofiti Venus In Furs, The Niro, Marina Rei, Benvegnù, Bugo, Giuliano Palma & The BlueBeaters, Beautiful (nuovo progetto di Cristiano Godano, voce dei Marlene Kuntz, che ha chiamato con sé Bergia e Tesio, rispettivamente batterista e chitarrista della band cuneese, insieme all’ ex Gianni Maroccolo ed allo scozzese Howie B), Caparezza e Afterhours.
Ogni artista, era scritto nel programma, avrebbe dovuto cimentarsi in un pezzo suonato a Woodstock giusto 40 anni fa, e questo, lo ammetto, solleticava non poco la mia curiosità. Io, a dirla tutta, son entrato nello Stadio Armando Picchi, dentro il quale era appunto situato il Main Stage, che The Niro aveva già ampiamente concluso (e m’è dispiaciuto, lo giuro, chè il giovanotto romano me lo sarei gustato con piacere), e Marina Rei era già a metà della propria performance. Sulla cantante la riflessione è interessante: era stata, sarò sincero, oggetto di scherno nel tragitto fino al Picchi poiché nella mente dei più, me compreso, Marina Rei era la voce che per un’estate intera, quella del ’97, ci aveva demolito il sistema nervoso con Primavera ( e so che la ricordate, “Sabato mattina ancora a scuola, l'ora è ormai finita e la mia mente va, una settimana intera e oggi lo vedrò, Dio come mi manca giuro non lo lascerò”, versi che avremmo preferito dimenticare in fretta), ed in cuor nostro speravamo che la sua esibizione risultasse il meno doloroso ed il più breve possibile. Ci siamo ricreduti. Rock, Marina Rei è rock, ed anch’io non c’avrei creduto, se non l’avessi vista con i miei occhi, e, elemento incredibilmente rockeggiante, canta suonando la batteria. Tra i pezzi eseguiti a Woodstock, la cantante romana si è scelta uno di quelli da trattare con cautela, Piece Of My Heart di Janis, e diavolo di una donna, l’ha fatto da dio. Affiancata dall’ottimo Benvegnù ha poi riproposto la lennoniana Strawberry Fields Forever, e nonostante io fossi in compagnia di un integralista beatlesiano che non ne ha adorato l’esecuzione, da parte mia posso dire che è stato l’ennesimo momento rock dell’esibizione, ma, effettivamente, sembrava di ascoltarsi la Joplin in una cover dei Beatles (cosa che io, a differenza del mio amico, ho assai apprezzato).
Dopo il duo Rei-Benvegnù è stata la volta dell’ iper-elettronico Bugo, sinceramente divertente nonostante portasse con sé una delle più antiestetiche chitarre degli ultimi duecentomila anni. Bugo a me piace, ed a Livorno è piaciuto, perché, oltre ad avere un grande pezzo come C’è crisi, dà l’idea di esser uno che a suonare se la gode, pare proprio che si diverta un sacco, ed è spassoso nel modo in cui tiene il palco. Ad Italia Wave, poi, ha trovato un pubblico che sembrava incondizionatamente adorarlo: io, ad esempio, avevo al mio fianco 3 giovanotti a torso nudo che ne gridavano il nome, ai quali mi son presto unito, per la verità sovrastandoli sia nell’intensità delle urla emesse sia nella frequenza delle stesse (ed ho finito di gridare “Grande Bugo!" a metà esibizione dei BlueBeaters). Tra i pezzi realizzati, il cantante milanese non si è fatto mancare la squilibrata La mano mia e la lisergica, sensazionale Sesto senso, per terminare, attingendo da Woodstock, con Fire di Hendrix, effettivamente un brano non così semplice, ma che comunque, grazie ad una buona dose di autoironia non ha certo sfigurato (o perlomeno, io ho visto autoironia nell’improbabilità del paragone col Re di Seattle balzatomi in mente nel veder Bugo tentar di suonare la chitarra con i propri denti).
Dopo di lui, la platea ha ballato al rocksteady di Giuliano Palma & The BlueBeaters, che astutamente hanno iniziato con l’inflazionatissima Tutta mia la città per passare poi in rassegna i brani più conosciuti, da Che cosa c’è a Messico e nuvole, fino ad arrivare a With A Little Help From My Friends che reinterpetata in chiave ska è parsa acquistare una differente bellezza rispetto alla versione di Joe Cocker, più malata, più feroce.
Lasciato il palco, è stata la volta dei Beautiful, progetto di Cristiano Godano, al debutto proprio ad Italia Wave. Le impressioni raccolte tra il pubblico, e tra di esse includo anche la mia, non sono state ottime. I Beautiful sarebbero stati un buon gruppo, a mio avviso, se quarant’anni fa non fossero esistiti i Led Zeppelin e i Pink Floyd: parti strumentali chilometriche ed un indugiare a momenti asfissiante in sequenze identiche hanno avuto un effetto assopente in un pubblico che, dopo Bugo e BlueBeaters si aspettava forse di conservare la propria carica. Nonostante questo, è inevitabile sottolineare ancora una volta il fascino ed il carisma di Godano, che non conosce intaccamento e che nei Marlene come nel nuovo progetto costituisce buona percentuale dello spettacolo totale.
Poco dopo le 23.30 allo Stadio eravamo in 15.000,dei quali un buon 70%, reputo, si trovavano lì per Caparezza. A fine esibizione dei Beautiful è avvenuta la prevedibile transumanza di coloro che si trovavano lontano dal Main Stage, i quali, desiderosi di godersi l’imminente show del paroliere di Molfetta, hanno fatto buon uso di gomiti e spalle per avvicinarsi al palco: il buon Salvemini ha regalato un grande spettacolo, come di frequente, e gli astanti precedentemente assopitosi causa Beautiful, hanno impiegato ben poco tempo per recuperare tutta la loro adrenalina. Da una straordinaria Vengo dalla luna il Capa è passato al nuovo album, eseguendo La rivoluzione del sessintutto, Vieni a ballare in Puglia, Abiura di me ed Ilaria Condizionata. Io, che a volte sono meno astuto di quel che potrei, mi sono presentato al concerto in infradito, e per i primi 7 minuti, trovandomi sotto al palco, ho incassato una serie di pestoni non indifferente, oltre alle sonore spallate di colossi che alla mia sinistra avevan probabilmente iniziato a pogare, e bere, dal giorno prima. I 35 minuti di show del Capa (troppo pochi, maledizione, neanche il tempo di farsi frantumare il metatarso dei piedi che già ci avviavamo verso la fine) son stati,come ogni concerto del rapper, un autentico spettacolo: Caparezza, sapientemente, regala divertenti momenti di interazione col pubblico, ospita sul palco orsi polari, figli dei fiori, poliziotti, SuperMario, un mattoncino del Tetris da sé stesso interpretato, fino ad arrivare ad un Elvis spiritosamente impersonato dal vocalist Diego Perrone, fedele spalla del cantautore pugliese, per la cover di My Generation, alla quale prende parte anche Bugo. Nel complesso, anche se solo per mezz’ora, un momento di grande intrattenimento, durante il quale ho visto divertirsi e ballare anche tipi inequivocabilmente rock, a testimonianza che la musica, quando è buona, non richiede frontiere.
Neanche il tempo per Caparezza e la sua ghenga di lasciare il palco, che assisto ad una sorta di fuga: il pubblico, letteralmente, dimezza, a testimonianza del fatto che gran parte dei presenti fossero venuti al Main Stage per l’esibizione del rapper italiano.
Peccato che dopo, a chiudere la serata, ci siano gli Afterhours, non proprio gli ultimi arrivati, che hanno la possibilità di suonare per un’ora. Lo show del gruppo milanese inizia con la sanremese Il paese è reale, che, aldilà di ogni facile critica della frangia suppostamene integralista dell’indie italiano, è un grande pezzo, per giunger poi alla storica Male di Miele e a Quello che non c’è, una delle canzoni più belle del rock italiano degli ultimi 20 anni (“Perciò io maledico il modo in cui sono fatto, il mio modo di morire sano e salvo dove m'attacco”, ma perché a noi comuni mortali non vengono frasi così?). Manuel Agnelli, e la band tutta, sono in gran forma, e gli spettatori presenti, nonostante le ore passate sotto il sole, han gran voglia di dimostrare il proprio calore; da La vedova bianca, estratta da Ballate per piccole iene, passando per il brano che dà il nome all’album, attraverso il recente I milanesi ammazzano il sabato, un breve ritorno al 2002 con Bye Bye Bombay dopo, ancora una volta, My Generation e una nostalgica Judy Blue Eyes, suonata a Woodstock da Crosby, Stills, Nash & Young. A vederli sul palco,si realizza che il rock italiano ha ancora qualcosa in serbo.
Ed è dopo serate così che, nonostante il nostro amore per la musica non ci permetta di assegnarle alcun tipo di etichetta, sentiamo che della buona musica italiana, aldilà delle nostre più o meno acute tendenze xenofile, in fondo siamo orgogliosi.
Articolo del
25/07/2009 -
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