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Dopo l’uscita di “The Slip”, gratuitamente scaricabile dal sito in vari formati, i Nine Inch Nails partono per il loro, presunto, tour d’addio. L’Ippodromo delle Capannelle sembra un posto ideale per contenere la potenza esplosiva del set reznoriano.
Non sembra esserci molta gente verso le 20.00, a differenza di una settimana fa quando i Motorhead hanno infiammato Roma e il pubblico. Oggi si accede ai cancelli con molta facilità, la quasi inesistente coda è fluida e la gente chiacchiera tranquilla. Nonostante i Nine Inch Nails abbiano raggiunto uno posto d’onore intoccabile fra i titani del nuovo rock, e il loro sia l’ultimo tour, non si avverte una particolare affluenza da parte dei romani.
Arrivo in ritardo e perdo gli Animal Collective mentre becco in pieno i TV On The Radio che, con il loro rock alternativo, tengono il palco a meraviglia. Purtroppo per i primi cinque brani si capisce veramente ben poco, il solito vecchio problema di acustica impastata affligge la città capitolina. Da metà concerto in poi le cose migliorano, le chitarre finalmente diventano parte integrante del concerto, il sax, seppellito nella bolgia di suoni, affiora facendo la sua sporca parte mentre il singer si batte tirando fuori un’ottima voce e una presenza scenica magnetica. Alla fine si balla e si canta mentre all’ultimo brano il pubblico inizia a rumoreggiare invocando il nome dei N.I.N.
Dopo quaranta minuti di attesa per il cambio palco, e una serie di birre ingollate nell’invano tentativo di placare una sete che non sembra conoscere confini scaturita da patatine affogate nel sale e dalla polvere alzata dal continuo andirivieni delle persone in attesa del concerto, ecco spuntare sul palco, in tutto il loro splendore, i quattro cavalieri del suono post-industriale. Non ricordo esattamente di aver visto arrivare Trent Reznor sul ciglio del palco. Di colpo è apparso con entrambe le mani sul microfono, come se quell’asta fosse l’unico appiglio sicuro in quel microcosmo. Ricordo le sua braccia, le gambe semi scoperte, i piedi racchiusi in due scarponi da clima nordico. Occhi socchiusi, bocca nascosta dai pugni. Rapisce la sua voce: sensuale, calda, profonda, allo stesso tempo sicura e profondamente triste. Nell’immediato si avverte una presenza scenica imponente. Eccolo scomparire e riaffiorare tra la nebbia falciata a tratti da bianche luci selvagge. Non è astratto ma a volte sembra non concedersi. I suoi movimenti imprimono nella mente lo spettacolo di un demone tormentato, divorato da esperienze che, attraverso le liriche di “The Fragile”, ha usato come psicoterapia per guarire, almeno in parte, dal suo dolore. Due ore di musica senza spazio per il ritmico respiro vitale, se non per “La Mer”, terminata con “Hurt”. Che regalo! Trent lascia il suo pubblico con “..and you could have it all, my empire of dirt”. Reznor è un animale silenzioso, sembra un paradosso. Se ci si concentra sulle sensazioni sembra vivere appieno la dicotomia delle sue urla silenti, a tratti sopraffatte dal suono infernale che lui stesso ha creato. Eppure quasi come la legge yin-yang tutto quel frastuono calibrato e rude ha una controparte che lascia attoniti. Non perde tempo in chiacchiere Trent. Solo poco prima della fine si concede i nomi della band. La voce, smagliante, è quella di “I can’t watch her slip away, I won’t let you fall apart”. La urla graffiano la gola rendendola simile a cemento a presa rapida. Immergendosi nei suo testi si corre il rischio di accorgersi della mediocrità che ci circonda. Il re dell’autodistruzione (violentissima la versione di “Mr Self Destruct”, indossa con classe la sua “crown of shit”. Leggerlo fa male, ascoltarlo ferisce, È scomodo, Reznor, infligge suoni come frustrate ricoperte di sale. La band è come un bulldozer impazzito, ma perfetto in ogni suo incastro. Le chitarre affilatissime, la sezione ritmica si occupa anche dei synths, il basso raddoppia le linee della batteria creando un sound danzereccio irresistibile. “March Of The Pigs” e “Terrible Lie” sono come due muri chiodati che si avvicinano da ambo i lati per maciullare la carne. I Nine Inch Nails sono feroci, determinati e inarrestabili. Meno elettronica nella prima parte del concerto e molta parte suonata. Reznor mostra muscoli e un carisma invidiabile. Nella seconda parte il palco diventa una pista multicolore su cui ballare e scatenare un pogo spaccaossa. “Gave Up” e “Suck” violentano i timpani, “The Downward Spiral” è un gemito primordiale disperato, e inaspettato, per il quale, nelle mia mente, continuo a ringraziare Trent. La sequenza dei brani in scaletta mi sembra impeccabile, certo mancano “Closer” e “Right Where It Belongs”, ma “You Know What Your Are” e “Only” colmano i grandi vuoti. Non esistono bis, il tutto è vissuto con un unico grande afflato vitale. Reznor avrà pensato che un addio si debba dire velocemente, tutto d’un fiato prima che ci sia il rischio di ripensarci.
A fine concerto il silenzio del pubblico la dice lunga sulla quantità di energia ed emozioni emanata da questa formidabile band. Robyn Shepperd (Sofia) ha intitolato il suo ultimo album “There Are No Goodbyes”, è quello che ho “bisogno” di pensare mentre, mestamente, mi allontano dal palco. “The time is drawing near, washes me away, makes me disappear, I descend from grace, in arms of underflow, I will take my place, in the great below"
“WE can still feel you, even so far away Trent”.
SETLIST: Somewhat Damaged Terrible Lie Heresy March Of The Pigs Something I Can Never Have The Line Begins To Blur I’m Afraid Of Americans The Becoming Burn Gave Up La Mer The Fragile Gone, Still The Downward Spiral Wish Survivalism Suck Mr. Self Destruct The Day The World Went Away The Good Soldier The Hand That Feeds Head Like A Hole Hurt
(La foto di Trent Reznor in concerto a Capannelle è di Giuseppe Celano)
Articolo del
28/07/2009 -
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