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Il PalaLottomatica stasera recupera la data di Lenny Kravitz saltata a giugno. Passando in macchina, prima di parcheggiare, do un’occhiata veloce all’esterno del palazzetto: la situazione sembra tranquilla, addirittura si ha l’impressione che la gente, vuoi per l’opprimente calura estiva che per la data spostata a fine luglio, non sia proprio venuta per questo recupero in “zona Cesarini”.
Insomma niente file chilometriche per l’evento, solita organizzazione confusionaria del palazzetto (già reo di casini per lo show di Beppe Grillo) e qualche bagarino presente nel disperato tentativo di rifilare biglietti al primo malcapitato. Una volta superati i cancelli il pesantissimo caldo, accumulato dalla struttura dopo ore d’esposizione al sole, mi aggredisce affaticando il respiro. Appena preso posto, nel terzo anello e ultima fila (sic!), mi accorgo che la gente è quasi tutta seduta, la sensazione di vuoto sparisce immediatamente. Le tribune laterali sono abbastanza piene, il parterre potrebbe ospitare il doppio delle persone al momento presenti. Musica da discoteca, pompata a manetta, inganna l’attesa mentre il pubblico rumoreggia per il ritardo sulla tabella di marcia di ben quaranta minuti. Le luci vanno giù, un ritmico ticchettio dalle casse rimane sospeso, alcuni fari illuminano la strada alla band che affiancherà Lenny. Poi il suono esplode, pieno e gonfio. La rockstar arriva sicura sul palco. Inutile tentare di descrivere l’isterismo del pubblico femminile. Kravitz viene accolto come un mito e di sicuro, agli occhi dei presenti, lo è. Occhiali da sole, capello nero, jeans stretti e stivali. Insomma questo “furbacchione” sa come fare presa sul gentil sesso. Sul palco ben sette musicisti, fra cui una sezione di fiati, praticamente inesistente fino alla quarta canzone dopo la quale il fonico, rinvenuto dal suo profondo torpore, prova a dare un’insignificante sistemata ai suoni che definire pessimi è puro eufemismo. Tutto ciò che si riesce a percepire è la batteria a sua volta soffocata da un basso ridondante che ammorba l’intera serata. L’uomo al sax, da infarto il suo solo in “Live”, si fa venire un’enfisema polmonare nel disperato tentativo di affiorare da quella bolgia di suoni impastati fra loro. Kravitz non si cura minimamente di tutto ciò procedendo imperterrito nel suo personale spettacolino, fatto di ancheggiamenti, mosse e ammiccamenti che mandano letteralmente in visibilio i due terzi del pubblico. Di suonare rock con la chitarra, come ci saremmo aspettati, mostrando il suo talento non se ne parla minimamente, ma almeno canta. La voce gli è rimasta, molto sensuale nella sua timbrica roca. Fra una canzone e l’altra accenna qualche posa da axeman, per il resto sale e scende dal palco concedendosi al suo pubblico, scattando foto e distribuendo bacchette. Danza Lenny, sorride, si aggrappa al microfono e quando passa al piano per una delle sue ultime hit lascia pieno spazio al suo chitarrista, l’unico veramente decente da ascoltare, in ex-aequo con il sassofonista. Il resto è puro showbiz scontato e prevedibile. Scenografia spartana, o a risparmio come direbbe qualcuno che mi sta accanto, e luci stroboscopiche accompagnano questo personale “circus” creato ad arte per la star planetaria, che di rock, ormai, ha veramente ben poco. Le continue pause create ad hoc, a mio avviso, spezzano il ritmo del concerto, mentre per chi è li per ammirare le grazie pelviche di Mr. Kravitz risultano piacevolissime. Quello che agli inizi era stato, a torto, considerato il vero erede di Jimi Hendrix dimostra di essere parte integrante di quel music business che ormai ammorba la stragrande maggioranza della musica odierna. Per fortuna la band, molto affiatata, colma i vuoti lasciati da Lenny, lasciando che si pavoneggi mentre fa il suo lavoro. I brani sono i più classici, da “Thinking Of You” a “I Belong To You” legata alla bella “American Woman”, sempre possente. Poi arrivano l’immancabile “Fly Away” e “Believe” con tanto di omaggio, prevedibile, a Michael Jackson in qualche strofa di “Billie Jean”, accolta dal pubblico con un boato. Kravitz si scusa con il pubblico per lo slittamento della data, regalando addirittura un inchino. Poi, dopo l’ennesima estenuante pausa, si riparte per la parte conclusiva della scaletta che vede come punto focale “Are You Gonna My Way” e la tristezza, mista a rabbia, cresce ancora di più nel vedere tanto talento messo alle corde dalle regole del business. Vedere (da distanze che neanche un obiettivo 70-300 Carl Zeiss avrebbero potuto coprire) Lenny ridotto così mi ricorda l’esibizione di un altrettanto virtuoso della chitarra, George Benson. Anche in quella occasione un’infinità di fumo e sculettamenti ma poco, molto poco arrosto.
Alla prossima Lenny, nella speranza che nel frattempo tu riemerga dagli abissi in cui sei, banalmente, caduto.
Articolo del
31/07/2009 -
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