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Descrivere un concerto di Antony non è assolutamente una cosa semplice, soprattutto se non si conosce il personaggio. Un gigante che supera abbondantemente il metro e novanta con capello liscio, nero corvino, che a vederlo sembra un alieno. Non sembra di questo mondo, la sua voce cozza con il gigantismo del suo corpo che, per certi versi, addirittura sembra sgraziato, quei suoni non sembrano provenire dalle sue cavità.
Stasera, dopo il sold-out del Ventinove Marzo, Antony raddoppia all’Auditorium Parco della Musica, accompagnato stavolta dall’Orchestra Sinfonietta, composta da cinquanta elementi e diretta da Rob Moose. Reduce da varie collaborazioni, da Lou Reed a Boy George e Franco Battiato, Antony è un personaggio strano, molto particolare, dotato di una timbrica angelica. L’intera orchestra sale in silenzio sul palco accordando gli strumenti con accenni di qualche brano famoso, poi nel silenzio religioso di chi sta dall’altra parte del palco il concerto parte: da dietro le quinte, illuminato da una luce fioca, Hegarty entra accolto da un’ovazione. Si piazza al centro del palco, di spalle all’orchestra, e inizia a far vibrare le sue corde vocali. Mentre lo si ascolta una sola domanda continua a frullare per la mente: come fa ad avere quella voce e quelle leggere, ma decise, intonazioni nasali che la rendono cosi unica? Appare incredibile per noi comuni mortali, ma quella timbrica baritonale e i gorgheggi lasciano di stucco. L’intera serata è basata sui brani rivisti e arrangiati in maniera quasi minimale dall’orchestra, come se non volessero disturbare l’equilibrio di quella delicatezza. Parla poco Antony, ma quando lo fa diventa logorroico, si prende delle lunghe pause, sorride al pubblico, interagisce con le richieste e spiega il suo rapporto con Madre Natura introducendo “Everglade” e, visibilmente emozionato, sbaglia l’ingresso; scusandosi con l’orchestra rilascia un sorriso che strappa un applauso, ma Il gigante buono non desidera applausi per i suoi errori e ci blocca sul nascere. Non c’è più niente da fare: quella grazia, anche nei movimenti delicati, ha conquistato il pubblico. Da qui in avanti potrebbe fare o dire qualunque cosa e tutti in sala sarebbero dalla sua parte. Poi arrivano “Another World”, delicata come un petalo di rosa, “Daylight And The Sun” e “Dust And Water”, un trittico da collasso emozionale. Antony si ferma ancora e nonostante qualcuno del pubblico rumoreggi vistosamente il singer americano sdrammatizza presentando “Her Eyes Are Underneath The Ground”, altro highlight assoluto della serata. Potrei stare ad a elencare ogni singolo brano cercando le parole più belle e convincenti per toccare il vostro animo, ma sarebbe nulla in confronto alle note emesse da quel diaframma. Una singola nota espressa da quell’ugola spazzerebbe via la mia descrizione come una foglia sollevata dal vento. “I Fell In Love With A Dead Boy”, uno dei primi singoli, è accolto con un calore immenso, mentre verso la fine Hegarty presenta “The Crying Light” con un faro dal calore caldo che punta dritta nella tribuna centrale dove sono seduto. L’emozione è grande, il rapimento totale, la voce incomparabile, non a caso Anhony annovera fra i suoi ammiratori Diamanda Galas che di lui dice: “Every emotion in the planet is in that gorgeous voice”, e se è l’Imperatrice del Canto a dirlo...
“Cripple And The Starfish”, “Rapture” e “For Today I Am A Boy” concludono questa serata che possiamo considerare il fiore all’occhiello dell’Auditorium per la stagione 2008/2009.
(per la foto di Antony in concerto si ringraziano Musacchio e Iannello)
Articolo del
02/08/2009 -
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