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Dopo un mese e mezzo passato sui libri e con le prossime due settimane che saranno anche peggio, dopo il signorile bidone dei fratelli Gallagher di fine agosto, dopo una settimana di cielo grigio e pioggia su Milano, avevo proprio bisogno di un concerto all’aperto. Anzi, avevo bisogno di un bel concerto all’aperto. Ed i Jet ieri sera, sul piccolo palco nel verde del Parco Sempione a pochi metri dalle mura del Castello Sforzesco, hanno regalato a me e al numeroso (nonostante una promozione quasi invisibile) pubblico presente un set davvero bello.
Partendo dai brani del primo album “Get Born” del 2003 (come l’iniziale “Get What You Need” e la lenta ballata “Look What You’ve Done”), il gruppo australiano ha proposto un set in cui non sono mancate tracce dal secondo “Shine On” del 2006 (come “Skin And Bones” e “Rip It Up”) fino a canzoni tratte dal recentissimo “Shaka Rock” (come il primo singolo “She’s A Genius” e “La Di Da”). Canzoni che non hanno per nulla sfigurato in mezzo ai loro successi più noti, facendo intravedere già al primo ascolto ritornelli orecchiabili, la solita grande energia, ma anche forse stacchi e strutture più ricercate ed articolate. Il concerto, comunque, è stato molto intenso. Il segreto dei Jet è molto semplice. Canzoni veloci e a presa rapida (basti pensare, ovviamente, ad “Are You Gonna Be My Girl” ma anche a “Cold Hard Bitch”), grande energia dalle prime note fino alle lunghe conclusioni spesso tirate il più possibile (come quella dell’ultimo bis, “Get Me Outta Here”, in cui Nic Cester, prese alcune macchine fotografiche dalle prime file, si è messo a fare foto dal palco mentre gli altri continuavano a suonare temporeggiando un po’ e aspettando che riprendesse in mano la sua chitarra) e l’alternanza delle voci che regala un qualcosa in più rispetto ad altre band (come in “Holiday”, cantata con notevole carica dal batterista Chris Cester, o nella lenta e molto bella “Come Around Again”, cantata dal chitarrista Cameron Muncey). Senza contare un Nic Cester in forma smagliante che, tra un bicchiere di vino e l’altro, ha interagito in continuazione col pubblico in un italiano più che dignitoso.
Alla fine, certo, non si può dire che la perfezione tecnica sia sempre di casa. Ma qualche imprecisione, se figlia dell’energia, è solo un segno di sincerità. E se poi il concerto (gratuito) non supera l’ora e un quarto, comunque non è un problema. Ho pagato altre volte per sentire suonare molto meno e molto di peggio. E per un’ora e un quarto non ho pensato un attimo alle due settimane che mi aspettano.
Articolo del
19/09/2009 -
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