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Per Bruce Springsteen il Sogno Americano non è mai stato una bella villa e un garage con dentro due automobili, ma un posto dove ognuno ha il diritto di avere una sua possibilità, dove ognuno ha il diritto di provare a “farcela”, il diritto ad essere felice, o almeno a provare ad esserlo. Nel suo lungo viaggio di ormai quasi quarant’anni, lungo la strada della canzone americana, ha segnato la sua strada, la sua strada rock, che lo ha portato fino al suo sessantesimo compleanno “still rockin'”, e l’ha segnata essenzialmente con la sua musica, con le sue canzoni e con le sue indescrivibili performance dal vivo, diventando praticamente suo malgrado un’icona della cultura americana.
Qualcuno ne ha talvolta sottolineato un suo profilo quasi troppo populistico (sempre che possa essere univoco e condiviso il concetto di populismo al giorno d’oggi e negli ultimi trent’anni d’America), facile al racconto da strade secondarie, dove l’eroe è spesso un perdente o un diseredato dalla società o dagli affetti, un raccontare incline al quadretto americano visto da dentro un’automobile, lanciata lungo l’ennesima strada americana, lunga e possibilmente deserta, a cantare delle ingiustizie subite o impossibili da evitare. Errore facile da commettere a voler “leggere” le sue canzoni da lontano, di sfuggita, e comunque con uno sguardo che si sofferma troppo facilmente alla superficie delle immagini letterarie e musicali, ma che forse commette la leggerezza di non cercare la chiave di volta, la chiave di lettura. Bruce Springsteen a chi lo accusava nei primi anni della sua carriera di scrivere solo di automobili rispondeva che lui non scriveva di auto, ma di “persone dentro automobili”. Ecco, è il punto di vista che ha sempre determinato la sostanziale differenza tra un onesto cantastorie rock, quantunque intinto nell'americanità (e tanti ce ne sono, anche validissimi), e il Boss, Bruce Springsteen. Non cercate lui tra le righe delle sue storie, o almeno non cercatelo traducendo alla lettera il racconto del suo lungo romanzo rock, non cercatene la biografia. E’ vero è stato ed è un “vagabondo nato per correre”, ha attraversato l’oscurità ai confini della città, è stato il papà e marito soddisfatto e appagato degli anni ’90, o l’americano ferito dell’11 Settembre, e quello sentitosi preso in giro dell’infinita era dei Bush, o ancora quello speranzoso e fiducioso della nuova promessa di Obama. Eppure non ha mai preteso di “raccontare” sé stesso in prima persona: a chi recentemente lo intervistava Bruce non aveva difficoltà a dire “nelle mie canzoni non parlo di me, ma parlo di te”. Come a dire io provo a raccontare storie semplici, verosimili, se non addirittura vere, tratteggiando un impeto, una passione, un brivido che non ha mai la pretesa di diventare lezione o Storia con la S maiuscola, ma solo frammento d'America.
In questo senso merita un posto di rilievo nella storia della canzone americana (e quindi checché se ne dica, nella storia della canzone mondiale), perché con una potenza a tratti devastante ha saputo far vivere in musica il dramma quotidiano di chi giorno per giorno ha lottato e lotta per il proprio frammento di american dream. Magari anche solo alzandosi la mattina per andare a lavorare, oppure cercando una ragione per credere in qualcosa, in una corsa in automobile o nell'ultimo ballo di un sabato sera. E così facendo è riuscito a far specchiare e riconoscersi nella sua lirica anche chi americano non è. La corsa senza meta di Born To Run (“un giorno, piccola, non so quando, arriveremo in quel posto dove davvero vogliamo andare, e cammineremo nel sole, ma fino ad allora, vagabondi come noi, sono nati per correre”), il vestito svolazzante di Mary chiamata a saltare su un’automobile guidata da un ragazzo che vuole scappare da una città di perdenti, e che se ne sta andando per vincere. Tutto il quadro a tinte scure, rabbiose, livide di Darkness On The Edge Of Town, per arrivare all’affresco quasi noir, ipnotico, disperato di Nebraska, o ancora all’urlo squillante del reduce che non riesce a soffocare la delusione che stritola in gola mentre ulula “I was born in the USA”: per dieci anni Bruce si è ritagliato il suo animo da rocker, duro e puro, che non voleva tradire: “L'unica cosa che ho imparato è ad essere vero, e poi, l'idea, la ragione di tutto questo, è di dare alla gente qualcosa che nessun denaro mai potrà comprare”.
E per dieci anni, dall’esordio del ’73 fino alla metà degli anni ’80 ha forgiato il suo suono, la sua musica, indurendola, passando dal rock/folk dei primi due dischi che odorava di ritmiche funkeggianti e di sonorità morbidamente rock/folk, passando per il wall of sound di spectoriana memoria di Born To Run, asciugando il tutto nel livido rock di Darkness..., per poi raccogliere tutto e molto altro ancora nella sinfonia maiuscola di The River, vera summa delle sonorità che in tutti quegli anni, era cresciuta con lui e con i suoi blood brothers della inarrestabile E Street Band. Una vera e propria famiglia, determinante nella stesura del racconto, in tutti questi anni, pur con alcune pause che però evidentemente non ne hanno intaccato il feeling e la resa. E infine, dopo la parentesi acustica di Nebraska, cercare una nuova traduzione della macchina da rock che ormai erano diventati gli E Streeters nel suono fin troppo scintillante di Born In The USA.
Alcuni non hanno mai perdonato al Boss e alla sua band di aver tradotto il linguaggio rock in una miscela che ha finito per portare le lancette indietro nel tempo, confondendo con una ricetta alla resa dei conti micidiale, il rock’n'roll, il folk, il rock West Coast, il Village newyorkese, l'orchestrazione rock spectoriana e il feeling nero, soul, quasi alla Motown. Il tutto senza spostare di troppo il baricentro in avanti. Senza cioè innovare o rinnovare il sound rock dei ’70, degli ’80, dei ’90 ecc. Discorso condivisibile, ma fino ad un certo punto, anche in senso temporale, perché lo Springsteen dei ’70 ha innestato la lezione folk di Dylan e Hank Williams, con le devianze pop di Roy Orbison, riuscendo a scrivere canzoni che fino ad allora si sarebbero mosse come ballate, in un’alternanza di accordi maggiori e minori, ma con ritmiche sostenute e sonorità potenti, rock, che in un contesto così non si erano mai sentite condite com'erano da pianoforte, organo hammond, sax... Come dire, le melodie ariose, popular, con le chitarre elettriche, basso e batteria che sapevano dove e come battere la misura rock, ma che non disdegnano il basso fretless quasi liquido a tratti. Ma anche le tessiture miracolose del pianoforte di Roy Bittan, l'impasto di organo-hammond, glockenspiel, e il sax nero, appassionato e passionale, prepotentemente soul di Clarence Clemons. Il tutto suggellato dalla grana ruvida, sabbiosa della voce di Bruce: un po’ nasale, quasi sgraziata negli esordi, lucida e rabbiosa poi, fino a crescere negli ’80 e diventare tagliente e ruvida con Born In The USA.
Se non è stato un innovatore, però è riuscito a esprimere la sua essenza sempre con una onestà invidiabile. E per moltissimi versi, inattaccabile. Criticare la superstar che canta i diseredati o i reduci del Vietnam, o che grida al fratello Stevie “nessuna ritirata, nessuna resa” è come criticare Chaplin di aver realizzato Il monello, La febbre dell'oro, Luci della città, e Tempi moderni quando già la sua United Artists era una colossale macchina da miliardi. O negare che, come ho letto piacevolmente su un forum in rete: “John Ford era un grande regista ed era benestante. Quando Steinbeck ha scritto "Furore" non credo se la passasse male e non credo fosse un hobo. Uno non avrebbe mai dovuto girare un film come "Furore", mentre il secondo non avrebbe mai dovuto scrivere la storia della famiglia Joad”.
Tornati al punto di prima tocca ribadirlo: non è Bruce Springsteen, marito e padre, rocker di fama internazionale a dire “I work five days a week girl”, ma è il protagonista di Out In The Street, esempio emblematico di canzone che comprende già solo nel suo titolo tutta una poetica, un messaggio, una fotografia precisa. Senti il titolo e già sei dentro il pezzo. Potenza della parola che si fa immagine, un po' come, pur per altri versi l'On The Road di Kerouac, e un po' come altre decine di titoli del canzoniere springsteeniano: Racing In The Street, Something In The Night, Meeting Across The River, ancora Born To Run ecc. Che poi Springsteen sia una delle poche voci al mondo capace di cantare ancora di diseredati e perdenti, senza più esserlo, e restando comunque credibile non suonando fasullo, beh, questo è il segreto dell’alchimia nell’incedere della sua voce, nella stessa pasta e nella densità del suo timbro vocale. E perché no, della magia del suono che ha amalgamato negli anni con la E Street band.
Dopo il grande boom di Born In The USA, Bruce ha cavalcato l’onda del successo a suo modo, dando alle stampe un disco quasi intimo, senza troppi squilli di tromba e senza fanfare a stelle strisce, quasi pessimista incentrandolo sull’amore di coppia, Tunnel Of Love. E poi ha deciso nel corso dei quindici anni successivi (e noi springsteeniani sappiamo che sono stati i quindici anni più lunghi), di mettere da parte via via, prima molti successi dei suoi primi dischi che per un po' decise di non eseguire più dal vivo, poi addirittura, la famiglia della E Street Band, dalla quale decise di separarsi per provare nuove avventure e nuove sonorità (francamente e sostanzialmente senza riuscirci).
(continua nella 2a parte)
Articolo del
25/09/2009 -
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