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(segue dalla 1a Parte)
Sono stati anni strani nei quali la sua vicenda familiare finalmente felice e appagante (con la corista e attuale moglie Patti Scialfa) lo ha quasi distratto da un progetto musicale organico e a fuoco. Ma sono stati anche gli anni di Tom Joad e del piccolo capolavoro che prendeva spunto dal romanzo di Steinbeck e dal film di John Ford per raccontare, ancora una volta con un clamoroso contropiede rispetto alle sonorità in voga nei ’90 “il nuovo ordine mondiale”, in chiave folk, chitarre acustiche, armoniche a bocca e poco altro. La strada doveva però tornare a confluire sulla via maestra ripresa in mano alla fine dei ’90, di nuovo con la E Street Band, fino all’alba di un'America riscopertasi fragile e vulnerabile quella dell’11 settembre. Nel tentativo, forse troppo istintivo, di cantare ancora una volta l’America che è, non quella ideale o quella che è stata, i dischi successivi, quelli fino ai giorni nostri, hanno provato a rispecchiare quell’anima ancora una volta profondamente americana. All’indomani del crollo delle Twin Towers, qualcuno incontrando Bruce per strada gli disse: “Hey Bruce, abbiamo bisogno di te”. Ecco il cantastorie, icona suo malgrado che impugna ancora una volta la chitarra e la voce e canta gli ultimi dieci anni di storia USA, con una consapevolezza (e anche con una sicurezza seppure tinta di ulteriore e più matura amarezza) in più rispetto al ragazzotto che replicava duramente a Reagan dal palco del Born In The USA Tour.
Qualcuno ha visto un piccolo eccesso di enfasi di molta della produzione di Bruce Springsteen, scorgendo come un eccessivo indugiare sull’epicità americana, sui clichè di un popolo e di una storia a stelle e strisce. Ma anche da questo punto di vista sbaglia chi ci vuol vedere un girare intorno a stereotipi da luogo comune americano, un limitato orizzonte fatto di strade, di frontiere, di conquiste, di guerre, di riscatto, di cowboys e indiani, di ferrovie, di cercatori d’oro ecc ecc. L’epica di Bruce è sborona quanto può esserlo il cinema western: rischia di essere patetica solo se viene ostentata come valore di per sé. Ma nella poesia del Boss ci sono solo storie, cantate magari con la chitarra a mò di moschetto, ma non ci sono lezioni o paradigmi, non ci sono ramanzine per nessuno, non ci sono vincenti e perdenti per diritto divino o di nascita. C’è però, ed è vero, una cultura che ha delle radici, e che sicuramente ad una formazione estranea a quella USA può apparire a tratti retorica morbosa, ma in realtà è soltanto un substrato incancellabile, che gli americani si portano sulla pelle, e Bruce non può far eccezione. Gli ultimi dischi, quelli che lo hanno portato quindi a raggiungere i sessanta sono sicuramente dischi più fragili, e altrettanto sicuramente meno validi dei capisaldi storici di diritto nella storia del rock, capaci di sconvolgere la canzone americana, come Born To Run, o Darkness.... Ma dietro ogni racconto in musica di un gigante come Springsteen vale sempre la pena cercare un angolo, un momento, una strofa, un’idea che può valere una canzone, e l’insieme alla fine comunque tiene, si regge, mantiene a galla anche dischi meno ispirati rispetto al passato.
In tutto questo tempo, però dai mitici anni ‘70 nei teatri, agli anni ’80 nei palazzetti e poi negli stadi, fino ad oggi passando quindi per centinaia di performance, il concerto del Boss resta il momento della verità. E qui, davvero a meno di trent’anni quando saltava da un lato all’altro del palco in giacca e canottiera, a trenta/trentacinque anni sui palchi degli stadi di tutto il mondo davanti a folle oceaniche, e così avanti per tutti i vent’anni successivi alternando momenti folk e acustici al fuoco disarmante del rock con la E Street Band, beh, ancora oggi che gli anni sono 60, Bruce resta il più grande performer del mondo. Instancabile, capace di stremare il proprio pubblico, e lui dopo 3 ore, ancora lì, ad attaccare l’ennesima versione di Twist And Shout che sembrerebbe banale e stramassificata suonata probabilmente quasi da chiunque, ma che suonata dalla E Street Band si scioglie, diventa liquida, malleabile, cantata come la canterebbero Ritchie Valens o Roy Orbison, senza le durezze di beatlesiana memoria, nella melodia. Sembra un’altra canzone, colorata da un pianoforte rubato a La Bamba, e con un coro da decine di migliaia di persone. Come disse Clarence Clemons dopo il concerto dell’85 allo stadio di San Siro: “ad un certo punto, su "Twist And Shout", accompagnavamo un coro di ottantamila persone”. E lui, Bruce, dopo 3 ore a cantare, sfiancarsi, a ballare ancora. Nell’85 come tre mesi fa alla fine dei suoi tre concerti italiani.
Bello sapere che a sessant’anni è sempre là, sul palco, che non si risparmia, e a chi magari oggi gli domandasse se e quando ci sarà il suo ultimo concerto, Bruce risponderebbe che lui, che loro, Bruce Springsteen & The E Street Band, suonano ogni sera come fosse l’ultima, fino all’ultima canzone ogni sera. E noi sempre lì, a chiederne un’altra ancora.
Articolo del
29/09/2009 -
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