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Scrivere una recensione su un momento cosi intimo è veramente delicato. La calda serata romana accoglie la discesa di "Mr. Sadness” Robin Sheppard. Per quelli che ancora non conoscessero la sua storia basterà ricordare che Sheppard, in piena attività con i God Machine, perde Jimmy Fernandez, bassista e propulsore delle ritmiche della band madre, per un tumore al cervello. Questa dipartita segnerà per sempre Robin che abbandonerà per un lungo periodo le scene decidendo successivamente di modificare il sound, potente e percussivo, che aveva caratterizzato le sue composizioni a favore di qualcosa di meno aggressivo ma molto più doloroso. Nasce cosi la nuova creatura: i Sophia.
Lo show di stasera prevede il supporto degli archi, ben quattro sul palco, cosi che il numero dei musicisti cresce fino a nove. Robin è in perfetta forma, guadagna il palco sicuro e saluta il pubblico ammettendo di sentirsi felice ma di non temere perché è ancora abbastanza triste da poter scrivere i suoi brani, descrive la sua tristezza come qualcosa di positivo il che strappa un sorriso ai presenti. L’apertura è affidata a “The Sea”, lenta e maestosa nel suo incedere, seguita da “The Slow” un pezzo scritto per mietere vittime con il suo arpeggio irresistibile. Fra una canzone e l’altra Robin afferma che il pubblico romano è in assoluto quello che canta meglio le canzoni dei Sophia, anche più forte di lui che sta sul palco (i maligni penseranno alla solita frase di circostanza) ma la frase si riferisce allo show del 2006, tenuto al Black Out. Da questo momento in poi le parole saranno veramente poche ma l’intensità della musica crescerà tanto da diventare insostenibile in alcuni passaggi. L’accostamento degli archi alla tristezza dei brani è pari ad una ferita aperta che continua a sanguinare. Sheppard è uno che soffre, non v’è nulla che si possa fare per salvarlo da questa condizione in cui la sua musica è radicata, una purezza inarrivabile ammanta i suoi brani che, pur essendo delicati, contengono in nuce la potenza della band madre. “Oh My Love”, infatti, si veste di una forza trascinante che avvolge il pubblico, “..cause I been waiting for such a long time.. I wait can't you see I can't wait forever for you to say you love me” urla Sheppard catalizzando l’attenzione di tutti. La batteria elettronica, doppiata dall’acustica, di “Swept Back” riporta la calma e le atmosfere create dai violini diventano quasi eteree, inafferrabili. Ma non basta perché il singer affonda il colpo lasciando che le note di “Desert Song No 2” rilascino quella infinita dose di dolore che serve a non farci dimenticare di essere vivi. Il crescendo di questo brano, equilibrato nella sua struttura, aumenta con l’intensità della voce che ondeggia sicuro al ritmo di questa lenta e tagliente ballata. E poi ancora l’incalzante “Pace” estratta da “Techonology Won’t Save Us” e l’intima “Directionless” in cui la timbrica del leader, che canta ponendo l’accento sulle parole “losing my direction”, sembra incrinarsi, non poco, per l’emozione.
Superata abbondantemente l’ora arrivano “Signs” e “I Left You” che definire struggenti è puro eufemismo. Il carico emozionale è pari alla massa spostata da uno tsunami, indescrivibile è il silenzio che regna nella piccola sala del Circolo. Da buon animale da palcoscenico Sheppard sa che è arrivato il momento di spingere forte sul pedale (della distorsione) presentando una versione al cardiopalmo di “The River Song”, trasformata per l’occasione in un pezzo a tre chitarre durante il quale la batteria detta il ritmo senza mollare mai la presa mentre l’uomo, prima al piano, si avventa sulla diavoletto rossa producendo una serie di feedback violentissimi. L’interminabile finale è una coda zeppeliniana che richiama alla mente “Kashmir”, un regalo inaspettato per chi non ha mai dimenticato i God Machine. Nei bis, in acustico, spuntano “Something”, dedicata ad un amico, “Obvious” (simile a “Boys Don’t Cry” dei Cure) e “Dreaming”, accompagnata dagli archi, che apre la strada all’ultimo devastante brano con ben tre chitarre in avanti, iper-distorte. È veramente commovente (ri)vedere Robin imbracciare una Gibson 335 mentre si scatena in “If A Change Is Gonna Come”, un brano di derivazione stoogesiana che lascia di stucco i presenti attuando una terrificante virata verso territori pesanti che Sheppard conosce fin troppo bene.
Due ore di pura tristezza, di fianchi scoperti e difese abbassate per l’uomo che ha traslato il (suo) dolore in musica, capace di accompagnare i momenti più intimi di chi era presente. Un’esperienza difficile da dimenticare.
Articolo del
07/10/2009 -
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