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Il 2009 è stato un anno deboluccio nelle uscite musicali, i primi della classe non hanno eccelso e, anche, dall’underground in pochi sono emersi dignitosamente. Ma come ben si sa, spesso, si risorge in primavera. A maggio si presenta puntuale “Dissonanze” con la solita iperattiva carrellata di facce emergenti dalle quali è pressoché impossibile sottrarsi. In Italia, da quello stesso carro, precipitò bene Mica Levi, in arte Micachu And The Shapes ma come ovvio in quell’occasione i curiosi presenti al live oltrepassavano di gran lunga i tifosi ‘micachuniani’.
Questa volta Mica Levi e i suoi The Shapes, ovvero Raisa Khan alle tastiere e Marc Pell alla batteria, si presentano al Circolo degli Artisti in ottima forma, già abbastanza rodati e stralunati. Nascono, crescono e ‘corrono’ nell’East End londinese, quanto basta, si direbbe, a dar vita ad una dinamica ben disordinata di suono. La band, infatti, si avvale non solo della solita ‘tastierina’ ma anche dei più noti articoli casalinghi; si parte dall'aspirapolvere che nell’album risuona in “Turn Me Well” alle bottiglie di vetro (naturalmente vuote e ovviamente di super-alcoolici) montate sul palco insieme a svariate cianfrusaglie costruite ad uso strumentale.
In apertura arriva il debutto di una neo-band inglese: The Invisible (Accidental Records, 2009). Il loro è un minaccioso space-pop, un intruglio smaliziato di jazz e funk, un ammiccante dimenarsi da ring tra Prince, Tv On The Radio e, non in ultimo, gli Hot Chip di cui, tra l’altro, anni orsono, aprirono a Londra, qualche concerto. Parliamo di David Leo alla batteria e Tom Herbert al basso che, per certi versi, tirano avanti la baracca. La mente del progetto è, invece, Okumu Taylor, un omone che nei tentativi simulazionistici vocali ricorda anche troppo Antony Hegarty. Avesse una più originale linea stilistica andrebbe molto meglio, dal momento che complessivamente la partenza della band, sul palco, è delle migliori. Bacetti alla Prince permettendo, infatti, alzano bene il ritmo sghignazzando territori avant-jazzistici con guadagnata sicurezza elettronica, ma alla lunga il gruppo finisce col perdere qualche colpo. Il pubblico ascolta volenteroso, apprezza e attende, sostanzialmente, i Micachu. Ma non è un caso che dietro entrambe le band ci sia la Accidental Records e Matthew Herbert, prolifico sperimentatore dei bei tempi (quasi andati).
Arriva il momento sentenzioso. Salgono sul palco i Micachu And The Shapes e con loro la presentazione ufficiale dell’album di debutto Jewellery, pubblicato da Rough Trade Records la scorsa primavera. L’ambito di riferimento è quello di un certo songwriting pop schizzato, territorialmente molto debitore della fucina sperimentale dell’East End e di quelle serate ‘scazzo-produttive’ che se sei in un club impercettibile dall’esterno e inizi a spaccare sul pavimento dell’interno anche solo un pezzo di legno e ci butti su qualche vocabolo magari, poi, arriva un pazzo alla Herbert e ti tira fuori un album geniale. La voce di Mica Levi è compulsiva e pienamente realizzata nei toni sgraziati, laddove l’attento sincronismo tra il batterista e la tastierista rimbalza alla perfezione e fa il resto. Portano sul palco quasi l’intero album. Un diamantino da quattordici pezzi (traccia nascosta compresa) che singolarmente e in media non superano quasi mai i due minuti e mezzo di ascolto. In apertura “Turn Me Well”, “Volture” e “Curly Teeth”, scivolano via talmente veloci che neppure ti accorgi che ti hanno già colpito e affondato con tre schegge. A metà strada arrivano i singoloni. “Lips”, “Just In Case” e “Golden Phone” afferrano, più degli altri brani, i presenti in sala, e diviene immediatamente evidente il perché di un Circolo moderatamente pieno data la presentazione di un primo album e per l’aggiunta quello di tre ventenni inglesi (che di questi tempi non lascerebbe sperare bene nonostante la garanzia dell’etichetta madre). Questo è un lavoro da raduno bandistico o da far circolare negli asili nido come forma di resistenza alle maestre, dato l’andamento ondivago e l’incalzante coazione di una sezione ritmica spedita e chiassosa. Un plauso speciale va a “Floor” e “Guts” che in un totale di tre minuti e settanta abbassano il tiro offrendo momenti di maggiore riflessività. “Sweetheart” in cinquantatre secondi, invece, ti schiaccia ti botto e “Eat Your Heart” ti rialza da terra a colpi di chitarra. “Wrong” è una filastrocca elettrica che singhiozza tra sincopi e piatti traballanti. “Ship” si avvale, invece, negli ‘ululati’ canori, della collaborazione dei Man Like Me, band londinese priva di senso e che dal vivo suona letteralmente demenziale (se potete evitateli accuratamente); come dire, non avrebbero potuto contribuire se non in altro modo.
Il live merita più dell’intero album che nel complesso risulta fin troppo pulito, metti, anche, la preparazione da conservatorio dei tre tizi. Jewellery (candidatura al Mercury Prize a parte) va sicuramente annoverato fra gli album più ingegnosi e freschi di quest’ultimo miserabile anno. Buona la prima, da tenere d’occhio. Se il “genio diabolico” è solitamente colui che esprime demolendo il cliché con intelligenza, ironia e leggerezza, i Micachu And The Shapes, al momento, si posizionano, diabolicamente, all’estremo opposto del laborioso e troppo umano.
Articolo del
27/10/2009 -
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