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Si faceva aspettare da due anni il nuovo lavoro firmato dall'eclettica band di Chicago “Wilco – The Album”: un titolo esplicativo, che infatti racchiude e sintetizza tutte le tendenze musicali che i Wilco hanno sviluppato e sperimentato nell'ultimo decennio, fino ad assurgere pienamente alla definizione di rock band. E che rock band! E' senz'altro quello che possono confermare i fan (e non) che sabato hanno assistito ad uno show di qualità eccelsa, che ha visto i Wilco dare sfogo a tutta la loro energia e geniale capacità nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano. Una rivoluzione di sonorità rock e acoustic folk, dissonanze elettroniche e rumorose, melodie coinvolgenti e raffinate, che designa definitivamente i componenti della yankee band tra i rappresentanti più illustri della post-modernità musicale.
La rivoluzione dei Wilco ha origine nei primi anni Novanta, nello stato dell'Illinois. Nel 1990, prima ancora che a Seattle prendesse forma il movimento alternative rock poi denominato grunge, un altro importante debutto andava ponendo le basi per una significativa riforma nel panorama musicale americano: è infatti l'anno d'esordio degli Uncle Tupelo, il trio composto da Jeff Tweedy, Jay Farrar e Mike Heidorn, con il primo LP “No Depression”. L'inno di “No Depression” (forse una citazione da “No Depression In Heaven” della Carter Family, gruppo country/folk risalente agli anni della “grande depressione” economica) contiene già in sé le radici del cosiddetto alternative country, mixando il folk e il bluegrass classico con la rabbia rock e post-punk tipica delle generazioni degli anni '80/'90. Dopo appena tre anni di moderato successo il gruppo si scioglie, ma il weird genius Jeff Tweedy torna alla ribalta nel 1995 con i Wilco, e l'alt.country o rock-country, il folk e il bluegrass revival, erano destinati a diventare gli elementi fondamentali a nutrire e rivoluzionare la scena americana indie (e non solo) fino ai giorni nostri. Ma Tweedy e compagni negli ultimi quindici anni hanno segnato il rock americano in più direzioni, scollandosi sempre più dalla linfa alt country, sperimentando tra songwriting, rumore elettronico, chitarre e batterie impazzite, fino a diventare, con le produzioni discografiche “Yankee Hotel Foxtrot", “A Ghost Is Born” e “Sky Blue Sky”, la più innovativa e geniale formazione musicale made in USA.
Forse a sottolineare che è un certo tipo di Americana quello che gli è sempre interessato fare, gli attesissimi musicisti danno il benvenuto con “Ashes Of American Flags” (la prima track di “Yankee Hotel Foxtrot”). Subito dopo ecco un autentico ritorno alle sonorità modern country con “Remember The Mountain Bed”, estratta da “Mermaid Avenue”, lavoro realizzato con la collaborazione di Billy Bragg e dedicato alla leggenda folk Woody Guthrie, del quale Jeff ricorda più avanti la famosa “California Stars”. Il talentuoso avanguardista Nels Cline abbandona il tocco frenetico e schizzato della chitarra elettrica, per dedicarsi a romantiche risonanze folk. Anche Jeff per l'occasione passa all'acustica. Il cambio di chitarra di Tweedy è ricorrente ad ogni variare di canzone. A confermare il tecnicismo di altissima qualità, è l'armamentario di strumenti allestito sul palco, a disposizione degli artisti. Almeno una trentina di chitarre acustiche ed elettriche, più diverse tastiere, sintetizzatori e percussioni. Citando la settima traccia di “Wilco (The Album)”, dall'ingannevole titolo “Country Disappeared”, si direbbe che in fondo in fondo “country has not disappeared”, dal cuore e dalla musica di Jeff Tweedy. Vengono rispolverati e suonati con passione alcuni vecchi pezzi addirittura da “Summer Teeth” come “A Shot In The Arm” e “Via Chicago”; quest'ultima rappresenta davvero emblematicamente l'anima tormentata ed irregolare dei Wilco, sviluppandosi tra nostalgiche melodie e disarmonie, incredibilmente amplificate durante lo spettacolo live, in cui i bassi e la batteria di Glenn Kotche impazziscono in un vortice di rumorose dissonanze, mentre Jeff Tweedy prosegue sui binari della 'normalità'. E' la post-modernità che non si limita a superare i vecchi canoni del classicismo, ma li continua a citare e li mescola con le sonorità più moderne, non solo armonia orecchiabile, non solo disarmonia rumorosa, ma entrambe insieme. Gli outsiders dell'alt.country, sul palco sanno divertirsi e coinvolgere gli spettatori con la loro vitalità travolgente. Dal talento chitarristico di Nels Cline e John Stirratt, la forza scatenata della batteria di Glenn Kotche, al pianista Mikael Jorgensen che ha contribuito alle dissonanze con un frenetico sbattere e struciare sui tasti con un cuscinetto, per non dimenticare la prontezza del polistrumentista Pat Sansone. Ogni canzone vede l'alternarsi di tranquille melodie acoustic, jam di chitarra e suoni elettronici e cacofonici, arrangiamenti e prolungamenti. I musicisti sperimentano, improvvisano, passano rapidamente da uno strumento all'altro, con piena padronanza, ottenendo risultati di maggiore impatto rispetto alle tracce registrate in studio. All'inizio di “I'm The Man Who Loves You”, in un'impeto di esaltazione, Glenn Kotche si erge sulla batteria e mentre la chitarra stride e prepara l'attacco, muove le bacchette a tempo incitando il pubblico.
Ogni finale è un'esplosione di rock puro e rumoroso, e un tripudio di applausi. La tracklist di venticinque canzoni è stata eseguita quasi senza pause, per un totale di due ore e mezzo di musica praticamente ininterrotta come lo scorrere di un LP, dalle qualità strumentali ed acustiche davvero eccezionali, nell'ambientazione avvolgente della Sala Verdi. Il primo richiamo all'ultimo album avviene con il suono intenso e ritmato di “Bull Black Nova”, in cui Tweedy con il tono della voce sembra calarsi nei panni del protagonista della sua canzone, sceneggiando l'ansia e la tensione di un killer braccato. E di fatti Jeff lo ha definito il suo pezzo preferito da “Wilco – The Album” ed il più stimolante da suonare live. Anche canzoni ordinarie come “Misunderstood” (da “Being There”), vengono reinterpretate e rivoluzionate con suoni forti e chitarre elettriche, batterie e tastiere scatenate: qui nel finale i Wilco si divertono a simulare un disco interrotto ripetendo “nothing” decine di volte, facendo salire la tensione e l'eccitazione degli spettatori alle stelle, e poi concludere finalmente con la strofa intera “nothing at all!”. Talvolta dal classico finale intenso e chiassoso, si conclude in acoustic a sorpresa, come per la bellissima “Impossible Germany”. La canzone con cui ci salutano i devianti rock dell'Illinois è “I'm The Wheel”, tratta da “A Ghost Is Born”, travolgente alternative rock vivacizzato da derive garage punk, come a sottolineare la vera essenza rock della band, che pur partendo dalle radici ci tiene a mantenere chiara la sua identità ed il suo posto d'onore nel panorama musicale contemporaneo.
“Wilco will love you, baby”: è la promessa citata tra le strofe di “Wilco (The Song)”, un patto che si dimostra pienamente rispettato con il pubblico, in occasione di ogni eccitante e sconvolgente concerto.
Articolo del
20/11/2009 -
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