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Sono già passati vent’anni. E chi ci crede? Vent’anni dall’inizio dei Motorpsycho. Non c’è nemmeno da chiedere chi sono perché prima o poi uno li incontra sul proprio cammino, i Motorpsycho, e solitamente se ne innamora e decide di fare il resto della strada insieme. Vent’anni sono una vita che ha già attraversato l’infanzia e l’adolescenza. Vent’anni sono l’età di un uomo fatto e finito, adulto e vaccinato. Sembra un controsenso festeggiarli con un vinile intitolato Child Of The Future. Un vinile, altro che mp3... Meno strano è mettere in piedi un tour per ringraziare di venti anni di convivenza. E a questo punto entriamo in gioco noi, quelli sotto il palco che in tutto questo tempo non si sono persi una nota, un cambio di tempo, nemmeno una goccia di sudore da quei capelli anacronisticamente lunghi.
A Trezzo si è tenuta la migliore delle feste di compleanno a cui sono stato di recente. Il Live è un ottimo locale: moderno, capiente, arioso e fornito di ben tre tipi di birra alla spina. Visto che mi sono presentato senza nemmeno un regalo, mi sembra il minimo rinunciare alla zona stampa per potermi tuffare a centro platea. Almeno in questo senso è il pensiero che conta e di pensieri ne ho tanti in testa. Tornano alla mente i ricordi dei primi tempi, quando si rinunciava al panino di mezzogiorno per risparmiare qualche soldo da dedicare all’acquisto di questo e quel disco subito dopo la fine delle lezioni a scuola. E’ così che ho conosciuto i Motorpsycho: su un bus con il lettore cd dalle pile perennemente scariche, dopo una giornata passata tra i banchi e con la pancia vuota. Penso a questo e al live dello scorso anno, all’Alcatraz, quando c’era da presentare l’ultimo album, una presentazione di quasi tre ore che mi lasciò pieno di certezze. L’occasione è diversa e me ne rendo conto quasi immediatamente con l’attacco di Kill Devil Hills: la voce in testa ora suona come un annuncio sull’autobus “siete pregati di reggervi agli appositi sostegni”. I sorrisi lasciano spazio alla musica, alla batteria di un altro mondo del giovane Kenneth Kapstad che segue la band dal 2007. Sinful, Wind–borne e Like Always sono la tripletta d’inizio. E già c’è da precisare quanto sia bello poter assistere a concerti come questo, con quella carica emotiva particolare che ti danno solamente le grandi occasioni, quel misto di amore e felicità impagabile che ti permette di renderti conto che sei solo all’inizio e che per le prossime due ore sarà solo una sfilata di cose belle. Wishing Well è un pezzo che rende l’idea di cosa ci si aspetta, giusto prima di Greener bombardata manco a dirlo dalle luci verdi del palco. Back To Source precede di poco la parentesi acustica di Bedroom Eyes (un capolavoro) e Sungravy prima di dare libero sfogo alle gambe con la recente ma non per questo meno bella No Evil. I Motorpsycho hanno mantenuto una continuità ed una coerenza invidiabili nell’arco dell’intera carriera. Tanto che il live gode di una struttura massiccia e coesa, mantenendo forti i legami tra un pezzo e l’altro. Una prova magistrale di quello che è talento puro. Se avete presente due album fondamentali come Demon Box e Timothy's Monster sapete di cosa parlo. Ho dimenticato Trust Us e Let Them Eat Cake? Me ne scuso, ma continuate a leggere: tornando al live c’è il tempo per Mr. Victim e Hey Jane che fanno da introduzione al finale come al solito tiratissimo e all’insegna del basso di Bent Sæther e della chitarra di Hans Magnus Ryan, chitarra che strappa gli ultimi brandelli di contegno lasciando spazio alla commozione e alla gratitudine più sincera. C’è veramente poco che possa battere tutto questo. Whole lotta Diana e 577. E tanti saluti a tutti. Pausa prima del rientro, pausa assordante perché gli inviati alla festa ne vogliono ancora, perché la festa è di tutti e ha appena messo sul piatto un cibo irresistibile. Il primo encore si divide tra il nuovo e il vecchio. Prima Cornucopia, dal nuovo. I Led Zeppelin che suonano davanti a me. Il rock vero che torna a fare capolino. Un imbucato alla festa? Ma non era morto? Lunga vita al rock. E alla psichedelia. E alla musica che ha trovato in questi tre, dei profeti d’eccezione. E poi Plan 1#: devo ripetermi? Seconda pausa se possibile ancora più furibonda della precedente. Che nessuno abbia voglia di andare a casa è chiaro anche ai muri. Siamo però alla fine e questo è ancora più evidente. C’è tempo però per The Golden Core prima dei saluti finali. Con il groppo in gola lascio lentamente la festa che oramai sta chiudendo i battenti.
Saluto e imbocco la via di casa, pienamente cosciente di quanto sia stato bello ed appagante rivedere una band che non ha mai vissuto nei canoni, ma che ne ha sempre stabiliti di nuovi. Una band sopra tutte le altre a cui tantissime altre devono l’esistenza e che dopo vent’anni sembra appena all’inizio con quella capacità di riavvolgere il nastro come se prima non fosse ancora successo niente. L’unica cosa che mi è mancata è stata Vortex Surfer, da Trust Us, uno dei pezzi che trovo semplicemente sbalorditivi. Approfitto della sua assenza nel live per citarlo qui come conclusione di questa piccola recensione che vorrebbe tanto essere una lettera di ringraziamento e amore incondizionato. And never end, go back to start. And never say when i fall apart. And never stoop to complain... about the pain.
Articolo del
21/11/2009 -
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