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A distanza di due anni, dalla loro ultima discesa nella nostra penisola, la band di Aaron Turner, boss della Hydrahead, torna a far visita alla capitale, stazionando per l’occasione all’Alpheus.
Al mio ingresso la band di supporto, Dälek, sta già suonando. Due uomini, di cui uno dalla stazza imponente, impegnato ai loop, e l’altro al canto. Nonostante il loro sound claustrofobico, ricco di bordate spaccaossa, lasci intravedere delle cose molto interessanti la loro esibizione stanca presto, per il ritmo del rappato, abbastanza monocorde, incapace di variare, una sensazione di appiattimento rende le canzoni troppo simili fra loro.
Dopo una mezz’ora, passata fra lo stand del merchandising e il bancone delle birre, le classiche atmosfere ambient, spinte nell’aria dalle casse, ci fanno capire che siamo vicini all’inizio. Poco dopo tutti i membri della band salgono sul palco, accolti da un boato. La partenza è al fulmicotone, con il classico impatto sonoro a cui gli Isis, da sempre, ci hanno abituato. Tre chitarre in avanti macinano riff a ritmi insostenibili, un basso che sembra provenire direttamente dall’ultimo girone dell’inferno, e un batterista dotato di tecnica impeccabile e forza distruttiva. Il leader della band è cambiato dall’ultima volta, la magrezza e i tatuaggi sono quelli di sempre, ma la barba e i capelli lo avvicinano ad un irsuto vichingo sceso, come un rapace, per mutilare l’integrità delle nostre orecchie. Non c’è che dire Turner ci riesce alla grande, i passaggi, dal cantato pulito al terrificante growl, incutono terrore. È come se dentro quella gola convivessero due demoni, in perenne conflitto per ottenere la sovranità assoluta. Le sue movenze, durante i crescendo, diventano sciamaniche. L’ondeggiare aggressivo sulla chitarra costringe a seguire questo flusso ininterrotto di emozioni, convogliato in un inarrestabile headbanging collettivo. “20 Minutes / 40 Years” ci investe in pieno e non c’è modo di fermare la sua folle corsa, seguita da “Threshold And Transfomers”, violentissima! Sebbene su disco questi brani non brillino per fantasia nel live si rivestono di una ferocia inaudita. Ma gli Isis sanno anche cullare, “Stone To Wake A Serpent”, con il suo organo ieratico e gli arpeggi di matrice frippiana, testimoniano la duttilità di una band capace di sconfinare in atmosfere pysch-jazz, pur mantenendo intatte le loro origini. Poi arriva il momento di “Hand Of The Host”, una gioia per le orecchie. Incredibile è la cura dei suoni, studiati sin nei minimi particolari. Il ruggito delle chitarre intimorisce, mentre su tutto torreggia il suono delle pelli che spazza via tutto con l’onda d’urto prodotta dall’impatto delle bacchette. Bryant Meyer e i suoi synths sono in forma smagliante, ma onestamente tutta questa grazia non basta a supplire alla carenza di pezzi straordinari come “The Beginning And The End”. “Ghost Key” abbassa leggermente i toni, mentre “Will Dissolve”, un cataclisma sonoro, riemerge dal profondo come un diamante appena scoperto.
Due nei da segnalare: la scaletta non è il massimo, ma non ci si poteva aspettare molto visto che i nostri prendono ampiamente dall’ultimo disco; il secondo riguarda la durata dello show che è, per chi scrive, vergognosa, un’ora tonda e via. Per il resto ECCELSI!!
P.S.: “So Did We”, la grande assente, stasera sarebbe stata bellissima.
Articolo del
27/11/2009 -
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