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Sembra incredibile aver potuto assistere al concerto di una delle mie prime scoperte musicali. Pensavo che i Devo sarebbero rimasti per sempre nelle pagine ingiallite della mia prima copia di “Rockstar” acquistata e, invece, ho finalmente coronato un sogno in quel di New York, la città che più di ogni altra è destinata a sorprenderti. Non si poteva di certo mancare!
Forse per chi è più giovane è difficile capire l’importanza di questo gruppo che per primo portò in scena in un lontanissimo 1974 ancora infestato dagli orpelli glam e le melasse progressive, l’alienazione della società post-industriale americana e la de-evoluzione darwiniana della specie umana. Una visione apocalittica e quanto mai incerta che anticipava, per molti versi, l’ideologia punk britannica. La rappresentazione musicale di tutto ciò fu un genere assolutamente nuovo e rivoluzionario basato su riff secchi di chitarra impreziositi di elettronica. Chissà, magari sarebbe stata la musica che il Charlie Chaplin di Tempi Moderni avrebbe voluto fare se avesse avuto a disposizione un sintetizzatore valvolare.
Ma torniamo alla serata che si apre con la divertente esibizione di tal JP Incorporated, un simpatico signore in completo grigio con parrucca e barba finta che inscena una performance satirica dal sapore zappiano arricchita da un commento video a base di messaggi e spot pubblicitari dissacranti. La cosa ci mette subito di buon umore facendoci lentamente entrare in sintonia con la città di Akron.
I Devo faranno il loro ingresso subito dopo. Sullo schermo appare il glorioso video di quello che può essere considerato il loro manifesto culturale, “Jocko Homo” del 1977, che rivela quell'ironia aspra ed intelligente e quella comicità a tratti grottesca che è stata (e continua ad essere) il loro marchio di fabbrica . La mimica robotica (stile Kraftwerk) dei cinque musicisti, che si muovono alla stregua di bambolotti lobotomizzati, è il tentativo di rappresentare il regresso della specie umana, standardizzata a tutti gli effetti, che cerca di affidare all'automatismo delle macchine la risoluzione dei propri problemi. Abbiamo alla mente le immagini di quattro giovani ragazzi nel loro periodo aureo e, francamente, si rimane un po’ spiazzati (due lustri più tardi!) all’apparizione di quattro signori americani di mezz’età un po’ stagionati ed ingrassati che saltellano con addosso la tuta gialla di carta dei bei tempi. Questa sensazione di disagio svanisce subito grazie all’allegria e alla conciliante gioiosità del pubblico, composto soprattutto da persone sopra i 30 (e forse anche qualcosa di più) con tanto di mitico porta piante rosso in testa usato a mo’ di cappellino che sorridendoti allegramente ti invitano a partecipare a qualcosa a metà strada tra un toga party e la celebrazione del mito dell’eterno ritorno. Il piacere diventa allora totale e l’incubo di vedere i Devo interpretare gli spettri imbolsiti di se stessi è definitivamente scongiurato.
Gli ex ragazzi di Akron attaccano il concerto con una versione tiratissima di "Uncontrollable Urge” (alla faccia dei vecchietti!). Il pubblico risponde cantando, saltando e ballando in preda ad una contagiosa allegria. Se poi anche la mia amica Daphne passa con nonchalance da Antonio Pappano al pogo allora vuol dire che siamo veramente rovinati! La line-up è quella di sempre, con l’eccezione del batterista storico Alan Meyers che già dalla fine degli anni ’80 è stato sostituito dall’ottimo Josh Freese. Al basso c’è quindi Gerald V. Casale (Jerry), alla chitarra ritmica suo fratello Robert Casale (Bob 2), alla chitarra solista Robert Mothersbaugh (Bob 1) ed alla voce il mitico e ipercarismatico Mark Mothersbaugh. Rispetto ai mitici video di trent’anni fa, Mark, Jerry e Bob 2 hanno messo su delle panze più che discrete (sarà il benessere dai!). Nonostante che la loro forma fisica non sia nervosa e scattante come lo era agli esordi, le movenze demenziali sono sempre le stesse e la voce ha mantenuto lo stesso splendore di un tempo. I cinque Devo si muovo in continuazione, scambiandosi ruoli, strumenti e, soprattutto, le lead vocals. Le canzoni sono delle scariche elettriche e si susseguono veloci e tirate senza il minimo accenno di pausa tra un brano e l’altro con la band tutta intenta a riproporre fedelmente gli arrangiamenti complessi delle versioni studio. In particolare, i riff meccanici di chitarra hanno quella timbrica glaciale che è stato il marchio di fabbrica di gran parte del sound chitarristico degli Anni Ottanta, a cominciare da Andy Summers dei Police. Sembra un controsenso per una band che è stata etichettata come elettronica. La verità è che, soprattutto nei primi dischi, i Devo avevano, invece, un sound prettamente rock.
La band esegue interamente il celeberrimo album d’esordio “Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!” più alcuni brani tratti da “Duty Now For The Future” e da “Freedom Of Choice”. In sala si respira un’atmosfera belushiana stile Animal House. I momenti migliori si hanno durante l’esecuzione della cover, geniale quanto irriverente, di “Satisfaction”, della corrosiva energia di “Jocko Homo”, una sorta di manifesto culturale della band ed, infine, di "Mongoloid" (che celebra l’involontaria serenità di un Down) in cui Mark lascia il cantato a Bob 1 e si improvvisa ragazza pon-pon.
Dopo circa un ora e venti minuti di energia pura, la band esce di scena per poi rientrare, invocata a gran voce da pubblico, ed eseguire l’unico bis della serata: “Secret Agent Man”. Superbi, imprevedibili, straripanti: onore a voi mitici Devo!
(La foto di Jerry Casale dal vivo a New York è di Eugenio Vicedomini)
Articolo del
04/12/2009 -
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