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Non è una sera come le altre. Anche se Peter Hammill viene spesso in Italia, ogni suo concerto assume un sapore speciale, quello delle cose belle, da trattare con cura, da seguire con attenzione e rispetto.
Per molti degli spettatori presenti qui questa sera alla Sala Sinopoli, le melodie e le liriche di Hammill sono un punto di riferimento generazionale, un qualcosa che dimora nell’animo, anche se non frequentemente ospitata nei discorsi. Fondatore dei Van Der Graaf Generator, con cui pubblicò un primo album nel 1969, Peter Hammill è stato sempre considerato interno alla stagione del Rock Progressivo inglese, sebbene lui non gradisca troppo questa etichetta, tanto meno le altre. Di formazione gesuita, Peter ha approfondito gli studi di filosofia ed arte calandosi nel mondo moderno con uno sguardo particolare, pronto a scavare nei dubbi che lacerano gli esseri umani, sempre disposto a mettersi in discussione, a porre domande, anche quando le risposte non erano a portata di mano. Adesso Mr. Hammill ha 61 anni, ha superato un attacco di cuore che ha messo in serio pericolo la sua esistenza nel 2003, appare fisicamente un po’ provato, ma quando poi comincia a suonare il suo pianoforte, e a cantare le sue canzoni, si dimentica tutto questo, possiamo solo calarci interamente nell’universo descritto dalle sue canzoni.
Hammill ha rimesso insieme i vecchi VDGG qualche anno fa, è andato in tour con loro, ma adesso ritorna a Roma in versione solista, in teoria per presentare “Thin Air”, il suo nuovo album, in pratica per offrirci una serata con le sue canzoni. Lui non si è mai sottomesso al meccanismo “nuovo album / nuovo tour”, lui è fuori dalle logiche commerciali, è infatti dal nuovo disco ci regala soltanto la bellissima “Undone”, il resto è un viaggio attraverso il suo repertorio, incredibilmente vasto, ricercato e toccante. Il concerto inizia con una sorpresa: “The Siren Song”, una vecchia canzone datata 1977, tratta da “The Quiet Zone/ The Pleasure Dome”, l’ ultimo album in studio dei Van Der Graaf Generator. Segue l’altrettanto bella e straziante “Don’t Tell Me”, da “The Love Songs”, album solo del 1990. Si capisce subito che dal vivo Peter Hammill non gradisce ricorrere all’elettronica: i suoni sono semplici, le note del suo pianoforte ci arrivano nude, essenziali, ma quanto mai vibranti. Un’altra sorpresa è costituita dall’esecuzione di “Autumn”, tratta da “Over” del 1977, quindi le note oltremodo gradevoli di “Shell“, da “Skin” del 1986. Dopo aver cantato sulla sopra citata “Undone” le incertezze di quanti non si sentono mai veramente compiuti, davvero realizzati, in una società pericolosamente liquida come quella in cui viviamo, Hammill passa alla chitarra acustica. Riconosciamo gli accordi iniziali di “The Comet, The Course, The Tail” da “In Camera” del 1974, il secondo album della sua carriera solista, e quasi balziamo dalla poltrona. Momenti estremamente delicati si alternano a cadenze drammatiche nel raccontare quel destino di solitudine verso il quale l’umanità sembra diretta, incapace come è di comunicare, di condividere: “What can I say when in some obscure way I am my own direction?” Poche volte capita - grazie alla musica - di vivere delle forti emozioni, ai suoi concerti succede, e non finiremo mai di ringraziarlo. La disperazione romantica tutta interna a quell’“I can’t get you out of my mind” ripetuto mille volte su “Shingle Song”, canzone che viene da “Nadir’s Big Chance” del 1975, ci ricorda quanto può far star male un amore non corrisposto, mentre “Modern”, da “The Silent Corner And The Empty Stage”, narra attraverso profezie bibliche la follia della modernità. Delicata e triste come la ricordavamo, “Ophelia” ci racconta la fine di un amore, “you’ve made some promises you can’t keep”, ci ricorda che tutto cambia, che niente resta come era, che finisce invece, insieme ai nostri sogni. Splendide le sferzate di chitarra decisamente hard rock di “Patient”, un brano del 1983. Sono talmente forti le emozioni che convoglia la potente vocalità di Hammill che quasi spaventano chi ascolta. Una breve pausa e poi Peter torna al pianoforte per l’ultima parte del concerto, che prevede delle toccanti esecuzioni di “The Lie (Bernini’s Saint Theresa)" e di “Meanwhile My Mother“, una canzone del 2006 tratta da “Singularity”, in cui Peter descrive con sguardo carico di affetto il declino della madre. Seguono le note di “A Better Time”, dove con un anelito religioso Hammill si chiede se esista qualcos’altro dietro al meccanismo di causa ed effetto, e la bellissima “A Way Out”, un brano tratto da “Out Of Water” del 1989, canzone simbolo dell’estraniazione dell’Uomo Moderno, preda di cose che non servono, confuso da mille stimoli, nessuno dei quali portatore di verità e saggezza. Stessa tematica su “Stranger Still”, da “Sitting Targets” del 1981, dove le urla di Hammill però arrivano al soffitto.
Emotivamente provato e visibilmente stanco, Peter sembra aver dato tutto. Torna sul palco per salutare e per regalarci ancora una canzone, una soltanto però, ed è “Still Life”, tratta dal disco omonimo dei Van Der Graaf Generator del 1976. Un altro piccolo capolavoro di liricità in musica, un altro momento di estasi per quanti hanno ancora voglia di ascoltare il cuore e le emozioni che provocano pulsioni vere, fatte di amore e di disperazione, di sogni e di illusioni, di vita e di morte.
SETLIST: The Siren Song Don’t Tell Me Autumn Shell Undone The Comet The Corse The Tail Shingle Song Modern Ophelia Patient The Lie Meanwhile My Mother A Better Time A Way Out Stranger Still
Encore: Still Life
Articolo del
09/12/2009 -
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