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Non ha che 54 anni il barbuto yankee un po’ inquartato che alle 21.40 in punto si materializza al centro del palco, ma ne dimostra parecchi di più. Non è un segreto, peraltro, che Steve Earle di vite è come se ne avesse già vissute tre o quattro, se non altro per la maniera intensa in cui ha attraversato l’ultimo mezzo secolo e spiccioli. Le droghe, l’alcool e la galera, da un lato, lo hanno segnato senza pietà. Ma d’altro canto Earle, a differenza di tanti che non ce l’hanno fatta, è uscito dal tunnel e ora possiede una inscalfibile serenità derivante dalla consapevolezza che il peggio è passato, e che unita alla saggezza della sua età anagrafica, oggi lo rendono un artista “vero”, solido. Uno che in definitiva ha tante storie – belle e brutte, e spesso solo sature di malinconia – da raccontare.
Fatta eccezione per la fedele acustica e per l’armonica, Earle sembra solo sul palco, ma appunto, è solo un’impressione, perché è quanto mai probabile che al suo fianco ci sia lo spirito del suo amico e mentore Townes Van Zandt. Townes, ovvero: la leggenda. Townes, il singer / songwriter di culto scomparso prematuramente nel 1997 dopo un’esistenza passata tutta nella corsia di sorpasso. Townes, che in vita non ottenne mai fama e onori nonostante avesse pennellato almeno una trentina (se non il doppio) di canzoni-capolavoro. Townes, il figlio di ricchi possidenti texani che volle farsi straccione e hobo per seguire la sua musa d’artista, e di cui Steve Earle una volta ebbe a dire: “Townes Van Zandt è il miglior songwriter del mondo, e potrei mettermi in piedi sul tavolo dove fa colazione Bob Dylan e dirlo ad alta voce”. Wow!
Steve Earle conobbe Townes Van Zandt quando aveva solo 17 anni. Ne rimase folgorato e cercò per un po’ di tempo di imitarne lo stile impeccabile in cui coesistevano contemporaneamente Lightnin’ Hopkins, Hank Williams e Bob Dylan. Ci provò invano però, perché era sprovvisto sia della folle dedizione che della cultura di Van Zandt (uno che aveva studiato nelle migliori università del West). Earle la sua strada la trovò più in là, alla fine degli anni ’80, quando sulla scia di Bruce Springsteen realizzò due LP come “Guitar Town” e “Copperhead Road”, via di mezzo tra outlaw country e rock’n’roll viscerale che nessuna radio potè ignorare. Ma Van Zandt, Earle non è mai riuscito a levarselo dalla mente, e quest’anno ha finalmente inciso “Townes”, un album composto da 15 canzoni dell’amico di un tempo, un vero e proprio tributo, un “labour of love” come dicono dalle sue parti.
E un tributo, naturalmente, è anche il concerto di questa sera. Personalmente, lo confesso, sono qui quasi esclusivamente per Townes, a prescindere da Earle che, peraltro, ritengo non faccia un gran servizio alle canzoni di Van Zandt. Il problema principale naturalmente è la voce: Earle canta in modo roco e indistinto, come da lezione springsteeniana. E’ una resa proletaria e working class, mentre Van Zandt era una specie di principe e possedeva una dizione perfetta: praticamente un bostoniano dal leggero - quando non era ciucco, altrimenti poteva essere pesantissimo - accento texano.
Tuttavia, dall’alto della sua esperienza, Earle è pur sempre uno che sa il fatto suo e una platea sa tenerla ai suoi piedi come pochi altri. Inizia con due dei pezzi più evocativi di Van Zandt, “Where I Lead Me” e “Colorado”. Poi racconta di quando conobbe per la prima volta Townes; lui era un ragazzino e lo prese a modello, sfortunatamente – dice – anche di vita. Tra un brano e l’altro, Earle dà vita ad una sorta di rap in cui è ripercorsa, in versi, la vita di Van Zandt. Gli vengono meglio, indubbiamente, i brani che virano nei dintorni del blues (vedi: “Rex’s Blues”): naturale, viste le corde vocali che ha. Earle racconta che nel momento in cui è entrato in sala d’incisione per il progetto di cover di Townes Van Zandt, si è ricordato di una lezione appresa in galera: la prima cosa da fare, dicono, è aggredire il biggest motherfucker tra tutti i detenuti. Magari ce le prendi; ma se per caso dovessi darle, otterrai il rispetto di tutti e forse ti lasceranno pure usare la radio per sentire la musica. Ecco perché il primo pezzo che ha inciso è il biggest motherfucker di Townes, l’inattaccabile, irraggiungibile “Pancho & Lefty”, ballata imprescindibile del filone Americana. La canta a modo suo, Earle, ma è sempre fitta di emozioni, la storia di Pancho “a bandit boy” che i federali avrebbero potuto catturare quando volevano ma che lasciavano in libertà “out of kindness I suppose”, e del suo alter ego Lefty, una specie di Giuda che un giorno tradì Pancho “on the deserts down in Mexico”.
Arriva anche qualche composizione di Steve Earle (“Taneytown”, “City Of Immigrants” e “Fort Worth Blues”, comunque scritta da Earle il giorno in cui seppe della morte dell’amico), ma questa resta sempre e soprattutto la serata di Townes. E non possono mancare perle come “Lungs”, “Marie” e la dylaniana “Mr. Mudd & Mr. Gold”, forse la miglior traccia dell’album-tributo, in cui Earle duetta con il figlio ventenne, a cui ha dato il nome (ma no!?) di Justin Townes Earle. E ancora tanti aneddoti, come di quella volta in cui Townes, ubriaco, propose un gioco di roulette russa e si sparò sulle tempie per ben tre volte (a vuoto), ed Earle scappò via inorridito (ma John Kruth, nella sua biografia “To Live's To Fly: The Ballad Of The Late, Great Townes Van Zandt”, racconta che Van Zandt drammatizzò il tutto perché il suo obiettivo era cacciare via di casa il giovane Earle che in quel periodo doveva essere un adolescente assai rompiscatole). Infine, dopo oltre un’ora e mezza di concerto, il bis, tutto ad uso e consumo del (non foltissimo per la verità) pubblico di aficionados di Steve Earle, con versioni acustiche ma come di prammatica viscerali dei classici “Guitar Town” e “Copperhead Road”.
Più che un concerto, quindi, una sorta di rito, officiato da uno che è un signor professionista, anche se non forse il miglior interprete al mondo di Townes Van Zandt (in questo ruolo ci vedrei bene il giovane Matthew Houck dei Phosphorescent: chissà?). Doveroso, peraltro, non dimenticare la lezione di Van Zandt, uno che prestò scarsissima attenzione al lato business della discografia e la cui missione di vita fu unicamente cercare di scrivere le canzoni più belle e più “vere” che gli fosse possibile. Questo il suo impagabile consiglio su quale fosse “la formula giusta”: "You've got to lock yourself in your apartment, take the phone off the hook, and listen to Lightnin' Hopkins for two weeks". Capito, cantautori?
Articolo del
11/12/2009 -
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