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Partecipare ad un concerto di Paolo Benvegnù è sempre qualcosa di estremamente complesso, una (dis)equazione difficile da risolvere. Forse perché non sai mai cosa aspettarti (ma il tuo cuore, in fondo, lo sa), forse perché la sua condizione di poeta inatteso ti sconvolgerà (oh, si che ti sconvolgerà), o forse perché sai di essere li proprio per farti violentare l’anima, mentre sguazzi, compiaciuto, nel dolore. Ma procedendo per ordine, a volte necessario in questi resoconti, andiamo ad imprigionare, per quanto possibile, con parole ciò a cui i presenti hanno assistito questa sera.
A conclusione di un tour, che ha raggiunto 120 date, Paolo e soci si presentano al Circolo degli Artisti con ben due set, uno acustico e il secondo, ovviamente, elettrico. Il tutto è stato ideato per ottenere una registrazione che finirà presto su disco. Devo ammettere che la Capitale risponde abbastanza bene all’evento, la sala del Circolo appare quasi piena mentre Paolo e la piccola orchestra sistemano gli strumenti. Come di consueto l’ironia di Benvegnù interviene, quasi fosse un’entità dotata di vita propria, per colmare quei momenti di difficoltà nati da problemi tecnici che affliggono ogni buon concerto, rock, che si rispetti. In poco tempo si parte in sordina, e tu lì, insieme al resto dei presenti (ma in realtà da solo), ti dimentichi di tutto lasciandoti pervadere da quella maledetta necessità di applicare quelle sue parole alle tue esperienze. Lentamente la sezione acustica si impossessa di te, le parole scorrono fluide, sostituiscono il sangue e, sotto la costante ma accelerata pulsazione del cuore, irradiano il cervello di emozioni che difficilmente potrai dimenticare. Paolo è in forma, come del resto lo è la sua orchestra che, ad ogni gesto del direttore, aumenta d’intensità colpendo i presenti con una violenta serie di diretti in pieno volto. Tutto il concerto, però, viene leggermente falsato dall’acustica, non proprio impeccabile, che relega la voce di Paolo in secondo piano, in parte sovrastata da un basso mammut che, personalmente, non riesco ad odiare. Dopo i venti minuti di cambio palco le cose iniziano a farsi serie e da lì in poi non si può fare altro che consegnare le armi, smettere di opporre resistenza, lasciandosi attraversare dall’intensità di uno spettacolo avvolgente.
Per l’occasione, sono solo in pochi a saperlo, sul palco si materializza uno degli uomini che hanno fatto la storia del rock italiano, che Benvegnù definisce, ironicamente, musica brasiliana, Manuel Agnelli. Completo nero e capelli lunghi sale sul palco per sedersi dapprima al piano, per una devastante “La vedova bianca” e poi per “Io e il mio amore” estratta dal “Paese non è reale”. Ma è con “La sottile linea bianca” che la potenza calda, come eroina, di Manuel si unisce alla fluttuante bellezza degli arrangiamenti dell’intera band, esplodendo come una supernova. Il pubblico canta fino scorticarsi le corde vocali, spellandosi le mani nel tentativo di rimandare sul palco la stessa energia eruttata dai musicisti. Il grido disperato di Agnelli in bianche dame come lame viene amplificato da tutti i presenti, Manuel è idolatrato, come fosse il messia del rock italiano. Fra i due, titani, emerge una solida complicità, Paolo tiene il palco a meraviglia mentre Manuel non invade, fisicamente, il territorio ma brilla di una luce impossibile da ignorare. Ma è proprio quando abbandona il palco che inizia il vero spettacolo dei Benvegnù. Si inizia a tirare fuori gioielli antichi e sempre brillanti, partono “Rosemary Plexiglass”, stupenda nella sua forza, seguita da “Quando passa lei”, ancora più delicata dal vivo, arrivando sino alla potente “Tungsteno” con tanto di siparietto e finte incomprensioni musicali che confluiscono in un’improbabile “Stayng Alive”, tutta improntata sul roco falsetto dell’ex leader degli Scisma. Ma quest’uomo, dal caschetto argenteo, sa come cullare tutti i presenti, affidandosi a cristalli che, attraversati dalla luce, proiettano una moltitudine di luci che agiscono da catalizzatore magnetico sulla sfera emozionale. “La peste” e “Il nemico” non lasciano scampo, il picco è altissimo, l’intero sistema nervoso si contrae in uno spasmo immobilizzando i polmoni, poi lascia la presa e quasi ci si accascia, vinti dalla quantità insostenibile di sensazioni.
Prima dei finti saluti, che riaprono il concerto per altri quattro bis, c’è tempo per respirare mentre si riparte con “Suggestionabili”. Non mancano “La schiena”, qui presente in doppia versione, acustica ed elettrica, e la stupenda “La distanza”. Forse siamo troppo suggestionabili ma ho la sensazione che ogni nota scavi la nostra schiena, lentamente, con un ritmo costante.
Articolo del
17/12/2009 -
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