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Alla fine c'è stata davvero Diamanda Galás nell'Aula Magna dell'università La Sapienza di Roma, martedì sera tra le 20,45 e le 22 scarse! Dopo la buca della scorsa estate, quando saltò la tournée italica, e la reale incredulità dell'attuale sede: i più scettici temevano l'acustica di marmo, rispetto all'immensa potenza vocale della Nostra. E così in parte è stato, con riverberi troppo algidi, quasi neutralizzati; mentre sullo sfondo l'Italia tra le Arti e la Scienza (ciclopica pittura murale di Mario Sironi, che dal 1935 incornicia l'Aula Magna) arrossiva; ci piace immaginare non solo per gli effetti delle luci e anche come metafora di questo Paese, in questa epoca.
Quindi Diamanda in un'apparizione fugace. Una decina di pezzi, con un paio di bis (al primo del quale ci sembra di scorgere uno sbuffo di insofferenza rivolto verso lo spartito). Nella sua splendente presenza di abito nero da sera e stivaletto alla caviglia, assai poco fetish. Volto al solito ceruleo e capelli immensamente neri e lisci, sulle spalle. Con la sua voce e il pianoforte, come oramai da diversi anni nelle sue apparizioni live. E duole dirlo ma anche la performance, sempre splendida, coinvolgente e impeccabile, fila via, troppo breve e simile alle ultime altre volte delle sue apparizioni italiche. Per di più in questa serata solo assai cortesi inchini di ringraziamento, ma non una parola al pubblico – assai eterogeneo, tra esigui ed incanutiti prof. e gothic girls and boys dalle argute capigliature – anche se non al sold out: c'è stata una costante emorragia, alla spicciolata, di diverse decine di (presumiamo) abituali abbonati dei concerti universitari, che hanno abbandonato la sala.
Le doti della nostra sacerdotessa sono sempre immense e spettacolari: l'ampiezza vocale del canto, incredibilmente acuto e prolungato e il momento dopo profondo e cavernoso; ironia, disperazione e melanconia poeticamente alternate anche nello stesso pezzo; il modo volutamente percussivo di battere i tasti del pianoforte. C'è tutto, ma sembra affiorare solo a tratti l'alchimia delle origini. Non credo sia solo il rimpianto del tempo passato, ma a noi mancano quelle performance di fine 80s, in piedi, con doppio microfono tra le mani, alternato a un coltellaccio a serramanico, dall'alto di un pulpito pagano, o piuttosto blasfemo, nel teatro di San Giovanni Valdarno, dal quale Diamanda Galás, inveiva per un'ora filata, accompagnata solo da rumorismi elettronici e nastri magnetici, donandoci tutto il ventaglio di bisbigli, voci nere, spezzate, urlate, indemoniate; e singhiozzi, pianti. maledizioni, urla atroci e intollerabili, dentro le quali ti perdevi, fino quasi a non uscirne più.
Il fatto è che, probabilmente, da un'artista assoluta come Diamanda Galás ci aspettiamo in ogni caso di essere sconvolti, come se l'esperienza live potesse essere, oltre che unica, catartica; ogni volta! E per questo continueremo a seguirla: sempre! L'altra sera ci siamo anche presi la soddisfazione di gustarci l'Aula Magna vuota di ermellini e parrucconi; riempita, seppure a tratti, di invocazioni sublimi. E il baudelairiano coro urlato da Diamanda ne Les Litanies de Satan avrebbe chiuso il cerchio, magico. Ô Satan, prends pitié de ma longue misère!
Articolo del
20/12/2009 -
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