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A voler cercare il pelo nell’uovo a proposito della splendida performance in solitaria di Bob Mould (poco meno di una divinità per chi scrive) potremmo rilevare la mancanza di “sfumature” nell’esecuzione dei brani più intimistici, proposti forse con eccessivo trasporto (ad eccezione di una commovente Hardly Getting Over It) al pubblico romano presente in sala.
Mould ha pescato a piene mani dal suo repertorio solista (Wishing Well, See A Little Light e Sinners And Their Repentances dall’album Workbook; Hear Me Calling da Black Sheets Of Rain), da quello degli Sugar (Hoover Dam, If I Can’t Change Your Mind e The Act We Act, da Copper Blue; Your Favorite Thing, da File Under Easy Listening) e, ovviamente, da quello degli Hüsker Dü (un’inaspettata In A Free Land, da Everything Falls Apart; Something I Learned Today da Zen Arcade; I Apologize e Celebrated Summer da New Day Rising; Makes No Sense At All da Flip Your Wig; No Reservations, da Warehouse: Songs & Stories).
Immagino che molti fossero lì soprattutto per riascoltare le meravigliose canzoni immortalate su vinile tra il 1982 e il 1987 da Mould, Hart e Norton, e l’emozione è stata indescrivibile, anche se – a voler essere onesti – i pezzi più movimentati suonati con la sola chitarra elettrica distorta hanno perso gran parte del loro fascino (specialmente Celebrated Summer). Tuttavia, a volte basta l’effetto “amarcord” a dispensare buone vibrazioni, perciò è andata bene anche così.
Però, ripensandoci... caro Bob, quando hai preparato la scaletta della prima parte del concerto, quella acustica, avresti potuto essere più oculato nella scelta dei brani. Hai trascurato piccoli gioielli come Too Far Down, Heartbreak A Stranger, Panama City Hotel, Explode And Make Up, Thumbtack, Walls In Time.
Ti ricordi?
Articolo del
21/12/2009 -
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