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L’ultima data del tour europeo che ha visto la divina presentare ad ogni concerto un nuovo brano della sua più recente produzione; ‘Your Kisses Are Like Fire’ è il regalo che la Galas ha scelto per il pubblico romano, a cui lei è sempre stata molto affezionata.
L’ambiente marmoreo, e apparentemente freddo, dell’Aula Magna della Sapienza di Roma si riempie velocemente con gli aficionados dell’artista e gli abbonati alla stagione concertistica della Sapienza, alieni alle sonorità profonde e strazianti della divina, che fuggono alla spicciolata dopo la prima parte del concerto. Alle 21:40 la luce lascia il posto alla penombra, che lentamente s’arrampica per le mura dell’aula sul murale di Mario Sironi e, in una sala governata da correnti gelide, la Galas fa un lento e sicuro ingresso, a spalle scoperte. L’accoglienza del pubblico, come sempre, non tarda a farsi sentire e un grande e caloroso applauso riscalda l’atmosfera preparando l’incipit di ‘Anoixe Petra’ (Papadopoulos/ Plessas) e introducendo la neonata 'Ta Fila Sou Eina Fotia' (Your Kisses Are Like Fire – Wahud/Angelopoulos), che fa sprofondare la sala in un religioso silenzio da shock termico. Un profondo respiro diaframmatico governa l’apnea che per tutti i primi tre brani non lascia scampo all’audience, quei gorgheggi inarrivabili, simili a pionieri pronti ad esplorare sconosciute lande, impongono una reazione emotiva attraverso l’eccelsa tecnica vocale e strumentale della ‘Serpenta’, capace di risvegliare stati d’animo inconsci e ineffabili. Nonostante le apparenze possano ingannare la mente, soggetta a un facile e prematuro giudizio, succube della staticità fisica della divina e del suo sfogliare gli spartiti con urgenza e insofferenza, la sua performance afferma, al contrario, un viscerale trasporto suscitato dalla materia sonora. La Galas non è solo sofferenza intima, ma anche malinconia e dolcezza veicolata attraverso ‘Fernand’ di Brel, autore da cui Diamanda è particolarmente stregata. Seguono ‘Je Rame’ e la bellissima albionica ‘Der Stunde Kommt’, quasi un presagio alla straziante e brutale ‘Amsterdam’, animata dalla cruda realtà dell’umana gente, ossessionante tema trattato dalla divina in tutte le sue sfaccettature, malsane e mutevoli. Un’alternanza di chiaro scuri, che risaltano come accecanti riverberi, affiancano il percussivo battere sui tasti, martellando l’orecchio in una dicotomia tra il suono grave del pianoforte e gli acuti vocali, su cui questa free-climber dell’ugola s’inerpica, fino a toccare vette che solo le sue quattro ottave d’estensione possono raggiungere. Il suo oscuro scrutare fra i meandri più reconditi dell’anima, e dell’arte del canto, esplora minuziosamente ogni angolo di questo straordinario mondo, passando dalla voce in maschera a gorgoglii gutturali, sfruttando l’intero range delle possibilità di un essere umano, a tratti verosimilmente alieno. Diamanda Galas sceglie il blues come veicolo della sofferenza lasciandola defluire direttamente verso il pubblico, senza aberrazioni. Allo stesso modo la divina disintegra il classico formato canzone, modificandolo attraverso ballate e brani più tradizionali, modellando il magma sonoro a favore del suo canto, in cui le parole, figlie di una qualsiasi lingua, si trasformano assumendo forme e significa(n)ti del tutto nuovi, attraverso un ‘quadrifarmaco’ musicale.
Diamanda racconterà, nei camerini, che stasera ha voluto utilizzare le luci come compendio del materiale sonoro, evocando in ‘Nobody Home’, un bellissimo blues estenuante e infernale, l’ansiogena figura di angeli danzanti intorno alla sua figura, flagellata dalle ali luminose di queste creature eteree. Un effetto simile, ad inizio concerto, nasce dalla retro-illuminazione porpora indirizzata sull’artista, che proietta, sulla parete dalle tinte sanguinolente e demoniache, l’immagine, ibrida, del suo corpo fuso con il pianoforte. Il piano, di fatto, è un’estensione del corpo e della mente della Galas, suo unico e privilegiato primogenito, attraverso il quale filtrano tutte quelle note ‘amniotiche’ della sua anima che riecheggia tra i tasti e le corde vocali. In questo travagliato viaggio, attraverso cui la divina ha guidato il pubblico, i volti degli astanti sono un caleidoscopio di espressioni forgiate dalla sua potenza, e le espressioni dei visi tradiscono tutte le sfaccettature della psiche umana.
Per i soliti detrattori/conservatori, venuti con l’idea di assistere alla consueta performance, questa sera, in un’ora, la Galas condensa un’insostenibile moltitudine di stati emotivi, rende ansioso il moto dell’anima, trafigge le corde più profonde dello spirito, arrivando addirittura a violare un vaso di Pandora; scoperchiando qualcosa, che nemmeno l’ascoltatore, immaginava di poter trovare. Se si dovesse trovare una metafora efficace potremmo definire Diamanda una donna “cerniera”, capace di unire emozioni situate in coordinate astrali opposte ma riunite attraverso una ferit(a)oia spazio-temporale aperta dalla sua voce. Diamanda scardina perfino il suo solito stilema concertistico, concedendo solamente tre sofferti encore per chiudere e quadrare il cerchio con la splendida versione di ‘Chansons Des Vieux Amants’ di Brel, ancora, con la dolcissima e dilaniante frase: “...mon doux mon tendre mon merveilleux amour De l'aube claire jusqu'à la fin du jour Je t'aime encore tu sais je t'aime...”. Sposiamo in pieno Brel unendoci alla sua accorata dichiarazione d’eterno amore, esternando il nostro per la divina ‘Serpenta’.
Articolo del
28/12/2009 -
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