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Dopo un paio d’anni di attesa, Devendra Banhart si è esibito lo scorso 20 dicembre alla Sala Petrassi dell'Auditorium Parco della Musica di Roma per presentare il nuovo ultimo album “What Will Be”. Il folk singer di Houston è accompagnato, in questo percorso musicale, da un supergruppo la cui line-up vede Devendra alla voce e chitarra accompagnato da Noah Georgenson (produttore degli ultimi due album di Devendra) alla chitarra e cori, Greg Rogove alla batteria, Luckey Remington al basso e voce e Rodrigo Amarante alla chitarra e cori. Tutti i musicisti coinvolti hanno preso parte all’arrangiamento dei brani dell’ultimo disco. Cantautore, pittore e giramondo, Devendra è una scoperta di Michael Gira dei gloriosi Swans e si è imposto sulla scena musicale nel 2002, catturando velocemente l’attenzione di un gran numero di fan e della stampa musicale internazionale grazie al suo talento ed al suo carisma. E’ membro fondatore della band dei Vetiver e, come solista, ha sei dischi all’attivo. Moltissime le collaborazioni ed i progetti paralleli cui ha partecipato (tra i quali ricordiamo "Water Piece" con Yoko Ono).
“L'hippie tutto capelli e barba” dagli occhi neri truccati e con una marea di braccialetti e anelli, sale sul palco alle 21.30 circa e viene immediatamente salutato dai suoi fans (specie dalle parti del gentil sesso) con un caloroso applauso. Devendra afferra la sua chitarra e parte con "Long Haired Child", straordinaria per esecuzione e intensità emotiva chiarendo fin dall’inizio (qualora ce ne fosse stato bisogno) che non è certo un fricchettone che ha rubato il gioielli di famiglia. Look strampalato, il folksinger statunitense sembra, per chissà quale errore della macchina del tempo, provenire direttamente dagli Anni Sessanta della contestazione e della controcultura hippie: un angelo caduto con le sembianze di Che Guevara, la voce di Marc Bolan e la sensualità di Jim Morrison. C'è da dire che la solennità dell’Auditorium, a mio parere, non aiuta di certo a stabilire quell’interazione emotiva tra artista e pubblico che è, invece, il fattore essenziale di qualsiasi concerto rock. Per fortuna che c’è Lui che, da vero mattatore del palcoscenico, ci contagia fin da subito con la sua simpatia ricca di verve ironica, il portamento affabile e rilassato, il suo sorriso sincero. La band è una vera e propria macchina da guerra. Sembrano conoscersi da una vita regalandoci delle esecuzioni perfette per tecnica e cuore. Ridono, scherzano, continuano a bere passandosi lattine di birra e, soprattutto, suonano felici di farlo!. Devendra in un paio d’ore ci riassume molte sfaccettature della musica popolare: dal folk, suo biglietto da visita, al soul; dal calypso al reggae. Alcuni brani di recente produzione rievocano perfino le migliori sonorità hard rock di fine Anni Sessanta. Ma ciò che rende davvero unica la sua musica è la spensieratezza con cui viene fatta, di chi vive giorno per giorno al 100%, di chi ha un passato da cantante di strada, di chi ha 28 anni e ha fatto dell’arte la sua ragione di vita. Le canzoni scorrono una dopo l’altra e, rispetto alla versione studio, sono decisamente un’altra cosa. Devendra lascia il giusto spazio a tutti i membri della band (la sua famiglia, come ha spesso sottolineato durante la serata), facendogli anche interpretare una canzone ciascuno. Ci coinvolgono i ritmi solari di “Baby” e di “Shabop Shalom”: la batteria è quasi sempre presente, il basso pompa il giusto e le chitarre si incrociano in arpeggi intriganti. Alla voce del cantante si aggiungono quelle dei due chitarristi e del bassista regalandoci armonizzazioni vocali degne dei Beach Boys. Il Gipsy di Houston ritorna, per qualche minuto, il folk singer degli esordi quando ci regala “A Sight To Behold” con un intro di chitarra flamenco e, quindi, “I Remember” seduto al piano Rhodes. Chiudendo gli occhi si poteva sentire, nella sua voce, lo spirito di Nick Drake e di Jeff Buckley, ancora vivi e pulsanti, come magicamente invocati. Con la Sala Petrassi tutta in religioso silenzio, Devendra imbraccia nuovamente la chitarra acustica per mirare dritto al nostro cuore regalandoci una sofferta versione di “You Can't Put Your Arms Around A Memory”, brano capolavoro del Johnny Thunders solista. L’atmosfera rimane immobile, Lui capisce tutto al volo e la stempera un po’ rivolgendosi al pubblico in un simpatico spagnolo ricco di mimiche e gestualità degne del migliore Massimo Troisi per presentarci un’altra cover da lui molto amata di tale duo dal nome “Paulino Simon & Art Garfunkel”. Ma dopo qualche secondo si interrompe in una risata condita da un bel “fuck! I do wanna skip that... Ok next song”. Ed attacca quindi “How’s About Telling A Story” tratta dall’album "Cripple Crow" tra le risate e gli applausi di un pubblico sempre più divertito.
L’atmosfera si fa sempre più incandescente mano mano che ci avviciniamo alla fase finale: altissimo livello musicale, interazione con pubblico e il piacere di suonare. I nuovi pezzi mettono un mostra un cantante più che mai libero da ogni classificazione e sempre più distante dalla scena neo-folk. L’attacco di “Foolin” ci trasporta dritti a Trenchtown. Devendra si alza in piedi a ballare, accompagna il brano con superbi ghirigori e gioca un a fare il jimmorrison. Baciati dalla solarità del ritmo reggae, non resistiamo più alla rigida “disciplina Stockausen” imposta dall’Auditorium. Cambiamo una vocale e corriamo (finalmente!) sotto al palco. La band sembra gradire la detonazione in atto ed è ulteriormente stimolata dal temperamento del pubblico che balla e canta tutte le canzoni proposte. Si diverte a testare sul campo i brani delle ultime due produzioni come ”Carmencita“, “16th & Valencia Roxy Music” e “Lover”. Idolatrati dalla folla, i cinque raggiungono vette difficilmente immaginabili grazie soprattutto al batterista, un piccolo grande Keith Moon, vero motore dei pezzi che riesce ad infilare controtempi e cambi di dinamica entusiasmanti. Oramai il pubblico ha raggiunto lo zenith del suo orgasmo musicale, e concede a Banhart qualsiasi digressione. Lo Zeppelin è decollato e la band si lancia in strepitose cavalcate hard rock come “Seahorse” e la conclusiva "Rats". Gli occhi sono tutti per lui, Devendra Banhart, che canta e si dimena tra i riff di chitarra distorta proprio come faceva il Robert Plant dai riccioli d’oro, portando a livello di picco il tasso dei tradimenti mentali di tutte le ragazzine presenti. L’angelo caduto se ne andrà dopo averci conquistati per due ore con un concerto d’altri tempi. E' notte fredda su Roma, una notte che probabilmente non significherà molto per nessuno. Una notte che passerà alla storia, che lo vogliate o no.
SETLIST: 1. Long Haired Child 2. Baby 3. Shabop 4. Angelika 5. Little Yellow Spider 6. A Sight to behold 7. I Remember 8. Last song for B 9. The Charles C Leary 10. You Can’t Put Your Arms Around A Memory 11. How’s About Telling A Story 12. Maria Lionza 13. Take Some Time 14. Foolin 15. 16th & Valencia Roxy Music 16. Find Shelter 17. Lover 18. No One’s Better Sake 19. Seahorse 20. Diamond Eyes 21. Carmencita 22. Rats
Articolo del
29/12/2009 -
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