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Provate a dare un’occhiata al tour dei Mono. I ragazzi del Sol Levante hanno in programma concerti quasi senza interruzione fino a metà giugno, quando credo gli verrà un colpo e ci troveremo a commentare con tristezza la notizia della tragica scomparsa della band. Non vedo altro futuro per loro, specialmente dopo averli sentiti al Magnolia un giovedì qualunque in mezzo a questo marasma di date.
Quindi, dopo i tre cinesi con il contrabbasso della famosa filastrocca, dal 1999 abbiamo anche i quattro giapponesi che fanno post rock. E lo fanno anche bene, se mi è concesso. Prendiamo ad esempio gli ultimi due album, You Are There e Hymn To The Immortal Wind: caspita niente male davvero. Hymn To The Immortal Wind è addirittura uno degli episodi migliori di sempre per quanto riguarda il genere. Post rock di qualità, riconducibile alla scuola texana di gente come i giovani This Will Destroy You e soprattutto Explosions In The Sky. Il modus operandi è più o meno sempre quello, con partenza soffusa, crescendo calibrato fino all’esplosione totale dei sensi attraverso un muro sonoro fittissimo fatto di distorsioni e feedback, più batteria pestata a dovere. Post rock, nient’altro: o si ama o si odia.
E al Magnolia sembrano amarlo in tanti, nonostante il clima tutt’altro che primaverile che uno si aspetta varcate le soglie di marzo. Ma forse è meglio così, perché il post è un genere da tuoni e fulmini e pacata tristezza, e va goduto quando fa freddo e non hai altro con cui scaldarti.
Il set inizia alle undici e imperversa per un’ora e quaranta abbondante. Nove pezzi in tutto, giusto per dare la misura di quanto la musica venga dilatata, il suono portato in territori ben oltre l’orizzonte. La presentazione di Hymn To The Immortal Wind è all’insegna dei volumi proibitivi: anche da fondo platea si viene investiti completamente, è per questo che siamo venuti e non ci tiriamo indietro. Mi chiedo come possano reggere sera dopo sera ad un set come questo, sia per i livelli di intensità raggiunti che per l’evidente impatto fisico che la performance si porta appresso. Prima o poi dovrà necessariamente, se non l’ha già fatto, subentrare la routine trasformando il tutto in qualcosa di meno sentito e più sistematico. Eppure la percezione è che sul palco sentano ogni singola nota nel profondo, che vivano ogni momento con grande trasporto, come fosse la prima volta. Sensazione che si diffonde e attraversa chiunque all’ascolto, rendendo l’adesione all’atto una vera e propria esperienza di comunione. Questi i lati positivi del set dei Mono. Ce ne sono di negativi? Uno solo ma c’è. Molto semplicemente è stato tutto troppo lungo. Dopo un’ora e mezza accuso i primi segni di cedimento. Quelli che prima mi sembravano passaggi da brivido e accelerazioni da levare il fiato, cominciano ad essere solo lunghi rimandi ad un finale che tarda ad arrivare. Sembra sempre il culmine, e ogni volta si deve ricominciare da capo. Se non ti chiami Mogwai (e loro non lo sono), purtroppo non puoi permetterti di tirarla troppo lunga, rischi di fare indigestione e diventare fastidioso. E a conti fatti è questo il risultato della serata. Partenza memorabile, sviluppo intenso e finale troppo tirato.
Abbandono il set prima del tempo, ma non per cattiveria. La mia esperienza dura poco meno di due ore e basta a saziarmi fino allo sfinimento, sono pieno fino all’orlo e non reggo un solo altro boccone. Mi chiedo come facciano i Mono ogni sera a trovare la motivazione e la carica giusta per dare sempre il meglio. Deve essere un discorso di reale dipendenza da suono o qualcosa del genere, non ci sono altre spiegazioni. Complimenti davvero quindi ai Mono, siete fenomenali. Solo un appunto per la prossima volta però: un’oretta abbondante basta e avanza.
SETLIST:
Ashes in the Snow Burial at Sea The Kidnapper Bell Pure as Snow (Trails of the Winter Storm) Sabbath Yearning Follow the Map Halcyon (Beautiful Days) Everlasting Light
Articolo del
15/03/2010 -
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