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Sei del pomeriggio di un caldo giorno d’estate di fine secolo: i riformati Box Tops, band cardine del pop/soul USA degli Anni Sessanta, arrivano all’ombra delle Torri Gemelle per eseguire il repertorio che li rese famosi un trentennio prima, di fronte ad un pubblico composto per 4/5ti di post-lavoristi in attesa del subway train che li riporterà a casa e per 1/5to di sfegatati maniaci di quanto odori anche in lontananza di Sixties.
Era da lungo tempo che i Box Tops non si esibivano insieme: il loro cantante e leader Alex Chilton aveva sempre detto di no, con un grande senso della propria dignità. Dopo lo scioglimento della band aveva formato i Big Star, lui, uno dei gruppi “cult” degli Anni Settanta; poi, dopo un periodo grigio in cui aveva fatto anche il lavapiatti a New Orleans, era tornato in auge con una serie di album solisti, e i Replacements di Minneapolis, sul finire degli Anni Ottanta, lo avevano onorato con una canzone intitolata semplicemente: “Alex Chilton”. No, non era per lui il desolante circuito degli “oldies”, dove tra il pubblico c’è sempre un grassone di mezz’età in camicia hawaiiana che ti scatta fotografie a raffica a un palmo dal naso. Però stavolta c’è di mezzo un concerto nella Grande Mela, ben pagato dal circuito radiofonico di un certo Bloomberg. E Chilton ha accettato, richiamando dal limbo i compagni di un’era fa, Gary Talley, John Evans, Bill Cunningham and Danny Smythe, signori i Box Tops.
Il vecchio Chilton si attarda un po’ nel retro-palco, costrettovi dai maniaci del retrò di cui sopra, che lo costringono a firmare vecchi rigati 45 giri del gruppo e gli raccontano di quando l’hanno visto cantare nel 1966 a Punxsutawney, tempestandolo di ricordi polverosi. Chilton firma, ascolta, la faccia impassibile. Lui la odia questa gente; diavolo, lui è Alex Chilton, uno che poteva essere come Lou Reed e mettere in musica Edgar Allan Poe ed invece è ridotto a cantare vecchie canzonette di fronte ad un branco di idioti nostalgici. Qualcuno, nel mezzo, gli chiede: “Ehi, Alex, la farai qualche canzone dei Big Star?”, e lui si ravviva un istante, perchè chi ha fatto la domanda deve avere una pur minima idea del “genio” che ha di fronte. “No”, risponde scuotendo la testa, “non sanno suonare quella roba, quelli là”, “those guys don’t know how to play that shit”, indicando con disprezzo i restanti Box Tops, come a dire: niente da fare, oggi mi tocca suonare con questi derelitti che non sanno cosa sia l’arte.
L’esibizione dei riformati Box Tops, che inizia di lì a poco, è qualcosa di struggente: è evidente che Chilton, che continua ad avere una delle più belle voci “nere” di un bianco, vorrebbe essere ovunque meno che su quel palco, mentre Cunningham e gli altri sembrano felici, quasi estasiati, di poter per un pomeriggio rivivere le emozioni che provarono a iosa sul finire degli Anni Sessanta. Bizzarra contrapposizione, che fa da sfondo ad alcune ottime canzoni pop/soul, come “Cry Like a Baby”, “Neon Rainbow”, e “Soul Deep”, che Chilton comunque esegue sempre con piglio professionale. Solo durante “Choo Choo Train”, dal testo simile ad una filastrocca infantile, Chilton rende esplicito il suo scontento cantando con una svogliatezza davvero sopra le righe. E purtuttavia, saranno pure canzonette, ma quando in finale di concerto i Box Tops danno il via a “The Letter”, e Chilton spara le strofe iniziali “Give me a ticket for an aeroplane / I ain't got time to take a fast train / Lonely days are gone / I'm going home, ‘cause my baby just wrote me a letter”, non ci sono tristezze e frustazioni che tengano, e anche il vecchio Alex sembra finalmente divertirsi: sa di stare cantando un pezzo storico, monumentale, che è e sarà sempre migliore, nei suoi due minuti e passa di durata, di un concept album sulle opere e la vita di Edgar Allan Poe.
Fatto sta che al termine del concerto Chilton sembra più contento. In fondo le cose cambiano, anzi, si muovono talmente in fretta che a due anni di distanza da questa esibizione, i Box Tops si sono nuovamente risciolti, le Torri Gemelle non ci sono più e lo “sponsor” Bloomberg è diventato il nuovo sindaco di New York. Se il quadro è questo, bislacco, mutabile e mutante non è poi impossibile che l’inquieto Alex Chilton venga un giorno (ri)scoperto dal grande pubblico nella sua unicità di cantante ed artista.
Articolo del
25/03/2010 -
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