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Ogni tanto è rigenerante staccare la spina da amplificazioni spacca timpani, distorsioni esagerate e riff ribassati per sedersi comodamente nelle poltroncine della Casa del Jazz e gustare quell’unica, a mio avviso, condizione in cui il jazz vive la sua massima espressione di libertà, ovvero l’esperienza live.
Questa sera la all stars band, quasi tutta italiana, è formata dal noto Stefano Cocco Cantini al sax, Ares Tavolazzi al contrabbasso, e il funambolico Fabrizio Bosso alla tromba e flicorno. Il resto della band non è da meno con Ramberto Ciammarughi al pianoforte e Manhu Roche alla batteria. L’ingresso dei musicisti è preceduto da un’introduzione dello stesso Cantini sempre felice di suonare qui, invitandoci a preservare la Casa del Jazz come posto di cura per la mente e il corpo. Intanto mentre le sue parole scorrono veloci, con accento fiorentino, il resto della band si accomoda e accorda gli strumenti aprendo il live con un’infuocata “Erranti”, contenuta nell’ultimo disco, che vede Stefano e Fabrizio già impegnati nelle prime scaramucce musicali. Sax e tromba si alleano prima per poi sfidarsi successivamente e, signori, che piacere, caldo ed eccitante, seguire quell’immaginaria maglia di note fittissime e intrecciate fra loro. Orecchie e occhi godono di questo duello di questa caratura. La scaletta è azzeccata e dinamica, la qualità dei musicisti “persi” spesso nei loro soli, indiscutibile. Stefano stasera ha voglia di raccontare la genesi dei brani e di prendersi in giro sui titoli per i quali, ammette sorridendo, di non avere una grande fantasia. Il secondo brano eseguito è “Il corpo delle donne”, responsabilità dell’esecuzione addossata al povero Fabrizio Bosso che si guarda bene, sorridendo, dall’accettare un simile peso. L’aria fra i cinque musicisti è molto giocosa, si nota il loro affiatamento e la voglia di divertir(si)e. La sordina di Bosso disegna strani ghirigori divertenti ed ammalianti, repentinamente cangianti come l’umore delle donne. Stefano, dal canto suo, lascia massima libertà a bosso e Tavolazzi, persi in un solo da urlo. Ma è proprio l’uomo diviso fra tasti bianchi e neri che crea quel tappeto sonoro di note, che si avvitano veloci su sé stesse, a dare uno spessore maggiore a tutta la musica, lasciando volare, alto, libero il resto della band fra soli e improvvisazioni emozionanti. Roche dietro le pelli è una certezza assoluta, appartiene a quella schiera di batteristi capaci di cambi ritmici violentissimi e di dolci carezze attraverso le spazzole. II drumming è ricco di accenti e controtempi che strappano applausi e urla di gradimento dello steso Cantini che se la ride sornione. “The New”, con tanto di solo micidiale al flicorno, lascia di stucco, non di certo per il titolo ma per l’equilibrio interno di un brano veramente esplosivo. Ma uno degli highlight assoluti è la successiva rivisitazione di “Blowing In The Wind” epurata, chiaramente, del testo e riportata alle sue origini gospel, un brano davvero struggente con il solo Stefano al sax che manda in sollucchero tutta la sala. Si gioca su armonizzazioni da brivido, lente scale e leit motiv ostinato e troppo maledettamente toccante. “Storia di un istante” è legata alla storia di quella meravigliosa musica che è il jazz che Cantini e soci si ostinano, per loro stessa ironica ammissione, ad amare e suonare. “Kenny” invece parte dal piano, lentamente, mentre, volutamente confusi, si aggiungono il resto dei musicisti per un finale esplosivo. Poco dopo, per un unico trascinante encore, la band risale sul palco mentre il pubblico la ringrazia con un’infinità di applausi mentre li richiama, a gran voce, but that’s all folks!
Non c‘è niente da recriminare per un concerto che definirei, per una volta, perfetto.
(Si ringrazia Roberto Panucci per la foto del Quintet in azione alla Casa del Jazz)
Articolo del
31/03/2010 -
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