Se dovessi ragionare come Fabrizio ragionava sul suo rapporto col Genoa (“Al Genoa scriverei una canzone d'amore, ma sono troppo coinvolto”) questo articolo non dovrebbe esistere, e come questo, almeno altri due.
Però, tant’è, sono orgogliosamente fazioso nella vita, figurarsi quando scrivo.
Quando, a dicembre, raccontavo del concerto di Alessio Lega e Guido Baldoni, che a Lecce cantavano De Andrè, raccontavo anche di come mi avesse positivamente colpito il fatto di “spogliarlo” dei grandi arrangiamenti pieni di virtuosismi pieffemmeggianti, vuoi perché non mi fa impazzire chi fa cover uguali all’originale senza essere l’originale (ed anche senza essere originale), vuoi perché mi piaceva il fatto di rimettere al centro le parole.
Rimettere al centro le parole è una cosa, per me che con le parole ci lavoro, capirete bene, fondamentale. Sono, spesso, una specie di Nanni Moretti di Palombella Rossa, quello del famoso “Le parole sono importanti!”. E, proprio perché con le parole ci lavoro, le tengo in altissima considerazione, si sarà capito, quando parlo dei vari album. In realtà, questa elevatissima deformazione professionale arriva proprio dall’ascolto intensivo di Faber, di cui sono stato, come probabilmente buona parte di noi, un nazi- fan fino ai sedici anni. Di questa pericolosa monomania mi porto ancora appresso gli strascichi, appunto nell’attenzione ai testi ed alle parole.
Per cui un album che rimette al centro la potenza delle parole e del messaggi deandreiano ha già il mio placet in partenza.
Però sono anche un fantasista, nelle mie esperienze calcistiche, ormai sempre più rare, ho sempre giocato trequartista, rifinitore. Ho sempre ritenuto più importante il modo in cui fai una cosa rispetto al farla e basta. Probabilmente, quando deciderò di prendere la patente, sarò uno di quelli che prediligerà la stradaccia pessima, ma con una vista ed un paesaggio favolosi, alla superstrada comoda ma “grigia”.
Questa mia passione per l’estro, per il colpo personale, l’ho sempre portata anche sul palcoscenico, sia come attore che come musicista.
Ed è una passione che condivido, fortunatamente, anche con le persone che più mi stanno attorno, tant’è che quando portammo in scena quell’ormai celeberrimo spettacolo sulla Buona Novella, quello della quasi querela, ci inventammo anche dei nuovi arrangiamenti, dei linguaggi musicali diversi sui pezzi di quell’album incredibile: fu così che “Il ritorno di Giuseppe” divenne uno ska forsennato, con svisature arabeggianti ed un basso sulla tonica molto cavalcante e punk. E fu sempre così che “Ave Maria” divenne, da meraviglioso brano orchestrale, con un afflato quasi mistico, un ruvido blues in minore, sul giro di “Summer Time” di Gershwin (tenuto su da un organo), col basso di “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd e con le sporcature della mia chitarra elettrica.
Ecco, in quella vena di follia che ci portò a fare quegli arrangiamenti c’è buona parte della mia visione della musica. Si tratta di un modo di riarrangiare che non è fine a sé stesso, ma che, semplicemente, vuole dare un diverso respiro ai brani, una diversa lettura.
Mi piace chi ci mette del proprio, soprattutto quando lo fa in punta di piedi, che non vuol dire necessariamente star defilati, fare tutto in modo quasi riverente ed ossequioso, no. Significa solo avere rispetto, ed hai rispetto esclusivamente quando senti “su di te” quello che stai cantando, quando ne sei emotivamente preso, quando credi profondamente nelle parole che pronunci.
Per questo apprezzai il bel disco di Alessio e Guido, per questo mi sono deliziato ad ascoltare “I Sambene cantano De Andrè”.
I Sambene mi piacciono perché, oltre al fatto di essere impeccabili tecnicamente (e sfido io: si sono formati all’Accademia dei Cantautori di Recanati terra- sono vichiano ad oltranza e credo nei corsi e ricorsi storici- decisamente ben avvezza a regalare arte, poesia e bellezza, e scusate per la rima di quart’ordine, molto meno degna di star lì) sono esattamente come me: orgogliosamente faziosi. Il loro primo disco, un paio di anni fa, era “Sentieri Partigiani- Tra Marche e memoria”, ed era un disco resistente, una testimonianza storica fondamentale e vitale.
Come scrive il buon Alessio Lega nel book di quest’omaggio a De Andrè, in fondo “Sentieri Partigiani” e “I Sambene cantano De Andrè” sono due lavori strettamente legati da un filo (rosso, ma questo è un altro discorso) di impegno civile e passione nel raccontare storie.
E questo è uno di quegli album che, se dovessi parlare solo con definizioni istantanee, definirei vivo.
Non potrebbe essere altrimenti: come la PFM ridiede vita ai brani del grande poeta genovese caricandoli di atmosfere folk, così i Sambene li rivitalizzano vestendoli di un raffinato abito acustico.
Il violino di Merico su “Canzone dell’amore perduto” mi ha fatto venire la pelle d’oca, sensazione accentuata dalle voci di Roberta Sforza e di Veronica Vivani, le cui ottave intrecciate sull’inciso erano praticamente perfette, un buco in pieno petto.
L’incastro perfetto fra la chitarra di Marco Sonaglia e la fisarmonica di Emanuele Storti su “La ballata dell’amore cieco” è la perfetta esemplificazione di quanto, in fondo, bastino pochi elementi ma ben dosati per fare un gran lavoro: mancano i fiati, ma la canzone è ugualmente “piena”, versione meravigliosa. Con quella piccola variazione melodica sulla linea vocale del ritornello che è una chicca bellissima.
Anche “Hotel Supramonte” è una di quelle canzoni che è in grado di prendere un uomo e ridurlo in poltiglia. Ma, punto non indifferente, bisogna sempre saperla fare. Nella versione dei Sambene ci troviamo di fronte a due prove vocali ed interpretative (Vivani e Sonaglia) complete, profonde ed intense. A dare il definitivo sprint è il flauto di Franco D’Aniello, mitico fiato dei Modena City Ramblers, che fa volare il pezzo dai monti sardi fino al Connemara.
“Dolcenera” è, per quanto mi riguarda, il vero capolavoro dell’album. La troviamo in una versione decisamente più spinta rispetto all’originale, con una chitarra più ritmata, la cui ritmica è contrappuntata dagli interventi del mandolino di Luciano Gaetani e dalla fisarmonica di Storti, che sembrano quasi rincorrersi. Ridanno perfettamente il clima del pezzo, in una versione che è un vero temporale, burrascoso ed incessante.
In una scaletta che ho approvato praticamente in tutto e per tutto, c’è “Spiritual”, probabilmente uno dei pezzi ingiustamente meno citati della produzione deandreiana, un brano che fa davvero capire il rapporto di Fabrizio con la fede. Qui bastano tre voci ed un pianoforte hammond (Lucia Brandoni) per tirare fuori un simil gospel fantastico, ritmato ed acceso. Bella scelta, bellissima resa.
“L’infanzia di Maria” è uno dei pezzi più incredibili di quel capolavoro che è “La Buona Novella”, con quel turbinio di voci quasi apocalittico, ed era impresa ben difficile renderlo in acustico, per di più con pochi elementi. Qui tutto comincia- ed è stata una grandissima trovata, per quanto mi riguarda- con quello che credo sia un berimbau a dar ritmo ed afflato arabeggiante. Le parti dei cori sono sorrette da accordi secchi di chitarra e dalle percussioni. Paradossalmente questa versione “light” rende il coro meno opprimente rispetto all’originale, ma lo carica di un colore più sacro e sacrale.
Il flauto di Franco D’Aniello ritorna in “Un Blasfemo”, ed anche questa volta riesce a far decollare il pezzo, dà quel tocco di fantasia e riporta alla Spoon River di Masters, all’America dei Padri Fondatori ed alle grandi praterie, mentre Roberta Sforza canta in modo impeccabile, sorretta da chitarra e fisarmonica, uno dei pezzi più tristemente attuali del canzoniere di De Andrè.
“Il Testamento di Tito” è uno di quei brani capaci di sgretolare muri e convenzioni, tanto è potente. Marco Sonaglia lo canta alla perfezione. I volteggi violinistici di Merico, quelli fisarmonicistici di Storti ed i capolini di bouzouki di Gaetani fanno il resto. Anche qui, semplicità e linearità per un arrangiamento pieno, pulsante.
Roberta Sforza tira fuori una interpretazione altissima e commovente di “Canto del servo pastore”, accompagnata dalla chitarra di Sonaglia, altrettanto incisivo nel cantato. Il flauto di D’Aniello sposta definitivamente l’ambientazione de “L’Indiano” dalla Sardegna verso l’Irlanda.
La perfetta intesa fra chitarra e fisarmonica si manifesta, sempre più palese, su “Un Giudice”, cantata, ovviamente alla grande, da Veronica Vivani. Anche in questo caso, due strumenti (tre con la voce) usati in maniera magistrale che finiscono per riempire il pezzo e non fargli mancare nulla.
“Nella mia ora di libertà” è uno, a mio parere, una delle vette poetiche e civili più alte raggiunte da De Andrè, anche lui uno di quei pezzi che sono fuoco, uno di quei pezzi resistenti. E non è solo una indicazione temporale. Quindi perfetto per i Sambene. Che, manco a dirlo, lo eseguono in modo impeccabile, con la solita chitarra a trainare tutto e fisarmonica e violino ad impreziosire il brano. Uno di quelli che, più lo sento, più mi convinco “che non ci sono poteri buoni”.
Probabilmente (anzi, sicuramente) nemmeno nella musica, considerando che anche chi scrive ogni tanto sfrutta malamente il suo potere, che è in realtà un potere di ‘sta ceppa, sarà sempre troppo tardi quando lo avremo capito. E questi bislacchi “abusini” di potere, sarà per mia deformazione romantica e cavalleresca, mi lasciano un po’ di amaro in bocca.
Comunque, tornado alla musica, “Khorakhanè” è impreziosita dall’organetto di Alessandro D’Alessandro, uno di quelli- insieme a Michele Gazich, guardacaso produttore e musicista nel primo album dei Sambene- che ho la fortuna di incontrare molto spesso nelle mie recensioni, ed ogni volta è un gran piacere. Qui è l’ingrediente imprevedibile del pezzo, quello che danza leggiadro sugli arpeggi di Sonaglia.
A chiudere il disco è “Girotondo”, cantato da Sonaglia, Sforza e Vivani insieme ai ragazzi del Coro ArsLive, in una versione molto simile all’originale (rispetto a cui, mi sembra, salga meno di tonalità), ma non per questo meno incisiva e convincente.
Il grande merito di questo album, come di quello di Alessio Lega e Guido Baldoni dello scorso anno, è, come già detto, quello di rimettere al centro le parole. E, con loro, le storie che raccontano. Colorandole di nuove sfumature, di nuovi linguaggi musicali e civili, riscoprendone l’urgenza narrativa e la potenza letteraria e poetica.
E adesso… “potevo attraversare litri e litri di corallo, per raggiungere un posto che si chiamasse Arrivederci”.
Articolo del
10/07/2020 -
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