A Palermo c’è il business dei giri in calesse: turisti pronti a farsi pelare come le patate decidono di provare i famosi carretti siciliani, facendosi, per l’appunto, scarrozzare in giro per la città. Ovviamente questi carretti, che riprendono la ricchezza stilistica di quelli del secolo scorso, sono trainati da dei cavalli.
Ai cavalli, essendo che spesso ci si muove in zone trafficate, per evitare di imbizzarrirsi viene messo un paraocchi.
Arriviamo al dunque, i cavalli con i paraocchi. Mi sembra ci sia una certa affinità fra quelle povere bestie ed una fetta, per fortuna relativamente grande, di artisti.
Nel senso che c’è effettivamente la pessima abitudine di screditare il lavoro di molti colleghi, il più delle volte più noti del detrattore di turno.
Chi lo fa solitamente agisce in questo modo perché, parlo con una ottima probabilità di vederci giusto, vorrebbe essere al posto dei colleghi che su cui sparano tanta merda. Attenzione, non è un discorso di gusti differenti, no. E’ proprio sentirsi superiori, avere la spocchia di autoincoronarsi come er mejo che ci sia. E la cosa che mi disgusta di più è che dietro non c’è nessun ascolto dei nuovi lavori del collega, c’è un totale rifiuto dell’arte altrui, un muro. Giudizi a priori tagliati con la spada del livore. Nessuna mancata comprensione di linguaggi altri (come potrebbe capitare a molti di noi con la trap), solo deliberato rifiuto di non conoscere.
Sono assimilabili, oltre che, appunto, a dei cavalli con i paraocchi, anche a delle imitazioni sbiadite di tanti Catone il censore, sempre pronti a starnazzare in continuazione “O tempora o mores”, mentre sono intenti a sbrodolarsi. Me li immagino, questi tristi figuri, durante il loro massimo godimento, a masturbarsi recitando le strofe delle loro canzoni.
Me ne vengono in mente un paio, di cui non farò i nomi, ma che non sarà troppo difficile identificare. Uno l’ho pure ospitato su questo mio spazio, ed in tutta sincerità col senno di poi me ne dispiaccio ancora: fu, la mia, semplice cortesia. Un altro di questi figuri, che in verità è una lei, sarebbe meglio per tutti se si dedicasse definitivamente alla musica ecclesiastica, chè le sue capacità chitarristiche sarebbero assolutamente valorizzate dal già citato Coro delle Nonne di Cristo.
C’è, per questo tipo di gente- la cosa è declinabile a tutte le forme d’arte, si badi bene- una strofa di un pezzo di Samuele Bersani che gli calza a pennello, che viene da “Lo scrutatore non votante”, pezzo che stava in “L’aldiquà”.
Fa più o meno così: “Intervistate quel cantante che non ascolta mai la musica, oltre alla sua in ogni istante, vediamo come si giustifica.” Ecco, vorrei proprio vedere quale sarebbe la loro giustificazione.
Ma tant’è, sono qui per parlare d’altro. Non a caso ho citato Samuele Bersani: è uscito “Cinema Samuele”, e questa è una delle notizie migliori degli ultimi tempi.
L’ho ascoltato, come sempre, a qualche secondo dall’uscita, stanotte stessa, caldo caldo.
Stamattina l’ho riascoltato, l’ho un po’ razionalizzato.
E’ uno degli album più coraggiosi che abbia ascoltato negli ultimi tempi. Parlare di sé, farlo in un modo talmente personale da riuscire ad essere universale, farlo anche in modo così lucido da apparire a tratti spietato sono cose che riescono così bene solo ai grandi.
E Samuele è uno di questi.
La prima sala del cinema è “Pixel”, che mette le cose in chiaro fin da subito: “Mi controllo poco e piango, persino in questo studio mentre canto. Non è colpa del mixer se ho la voce più triste, tu lo sai.”
Un pezzo che poggia su una base di piano ed elettronica ed un crescendo che porta all’entrata in scena di basso e chitarra elettrica sulla parte finale del brano.
L’utilizzo sapiente di una elettronica fresca e trascinante si trova anche ne “Il Tiranno”, pezzo che poggia, come sempre, su un testo che ha in sé una infinità di piani di lettura: racconta di liberazione da uno stato di impasse, dai propri fantasmi. E’ un brano colmo di resistenza e di forza, a tratti commovente, con quella luna leopardiana che “si gode dall’alto la scena”.
“Mezza bugia” è una bella scossa di schitarrate elettriche potenti che reggono un pezzo impreziosito dalle armonie di tastiere ed elettronica, credo ci sia dentro anche un theremin, cosa che non smette mai di farmi andare in brodo di giuggiole. Un brano che parla di incomunicabilità, di un rapporto difficile e di mezze bugie, con un tentativo di distensione, “Procuro un calcio di rigore oltre il tempo regolamentare, concedo a te l’onore il gusto di segnare per mettere a tacere questa battaglia di parole”, che sembra il meraviglioso “saper disinnescare” di cui parlava Giallini in “Perfetti sconosciuti”.
Tre dei pezzi meglio riusciti dell’album, se non direttamente i più belli, sono “Con te”, “Il tuo ricordo” ed “Harakiri”. Coerentemente col titolo dell’album, ci troviamo di fronte a tre brani che sono, più di tutti gli altri, fatti di fotogrammi, di immagini. Sono due sceneggiature già praticamente pronte, primo e secondo tempo di un film: la fase dell’innamoramento che quasi rade al suolo, “con te perdo ogni forma di difesa minima”, lo scontro fra un passato doloroso che ritorna a tratti, che “non paga nemmeno il biglietto” ed un presente che “prepara la sua corsa e dimostra a sé stesso che arrivato al traguardo non avrà più nostalgia”, la definitiva rinascita dalle sue ceneri del protagonista, che “stava facendosi harakiri in un cinema porno francese” e che “poi, dopo una serie di giorni infelici venne fuori vestito di bianco, sembrava una lucciola in mezzo a un black out”, chiudendo con quel meraviglioso cielo che per fargli un regalo “di colpo si aprì a serramanico come se spalancasse un sipario.”
Come vedete c’è una cifra poetica altissima. A farle da contrappunto ci pensano degli arrangiamenti certosini, studiati nei minimi dettagli, dalla minuscola dissonanza che sta in qualche passaggio di “Harakiri” fino alla linea di chitarra che accompagna il l’inciso di “Con te” per finire con l’elettronica archeggiante che riempie “Il tuo ricordo”.
Vorticosa è “Le Abbagnale”, meraviglioso racconto dell’amore fra due ragazze (“Le ha unite una città rimasta a lume di candela ma la loro personale carica di elettricità riaccenderebbe Roma intera”), con una sezione di fiati ad aumentare l’energia del pezzo ed una leggerissima dissonanza al pianoforte che regala imprevedibilità e ulteriore colore.
Con “L’intervista” c’è uno dei rari “omaggi” di un cantante alla critica, che più che altro è una critica a certo “sistema- musica”, che parte molto spesso dalla strafottenza di alcuni uffici stampa e prosegue con la spocchia immotivata di una fetta di “artisti supremi”, per finire con l’accondiscendenza che viene concessa in troppi casi alle case discografiche ed ai potenti dello streaming o delle radio. Un argomento su cui è fondamentale porre l’attenzione e che Samuele racconta con la solita, incredibile fame di libertà, che in questo caso ha il suono di un pianoforte di sottofondo e di una gran bella linea di basso che lancia il ritornello.
A chiudere il disco, non in ordine di tracklist, ci pensa la formidabile doppietta messa a segno con “Scorrimento verticale” e “Distopici (Ti sto vicino)”. Ho sempre pensato che chi fa di mestiere il cantastorie debba essere, per forza di cose, un po’ visionario, avere una specie di “realtà aumentata” che gli permetta di capire cosa sta per succedere un attimo prima degli altri e che gli permetta di raccontarlo come gli altri non saprebbero mai fare. Ecco, in questi due pezzi la presenza di questi ingredienti è notevole. C’è una lucidità spietata nel raccontare il mondo della distanza di insicurezza (giusto per citare un altro grandissimo che un giorno prima di Samuele ci ha regalato una delle sue tante perle, parlo di Pino Marino), in un pezzo che è nato prima della bufera pandemica ma che già ne anticipava i toni drammatici ed, appunto, distopici, pezzo da cantautore “vecchia maniera”, con l’arpeggio di chitarra a trainare ed il theremin a fare da contrappunto. C’è un certo sarcasmo malinconico nel raccontare lo spazio- tempo liquido dei social in “Scorrimento verticale”, con quel “Sono campione nazionale di scorrimento verticale e in un secondo sono al mare, ma in uno schermo liquido non ci si può tuffare”, brano la cui linea di basso, avvolgente e sinuosa, rende alla perfezione il movimento di scroll delle bacheche dei nostri social.
Conclusioni: è stata, finora, la recensione più difficile che mi sia capitata fra le mani. Per tanti motivi, dei quali probabilmente quello strettamente musicale è l’ultimo- gli arrangiamenti sono curati talmente tanto bene da rendere comprensibile ogni passaggio di ogni brano. In realtà è un disco che mi ha lasciato spiazzato, è stato a tratti un vero cazzotto, e mi sono preso il lusso di metabolizzarlo per bene prima di scriverne. Mi ha stupito la voce di Bersani, che è quasi come il vino, migliora invecchiando, ma ancora di più mi hanno stupito i nuovi colori che ha assunto. Provo a spiegarmi meglio partendo dal dato letterario: Samuele ha un tipo di scrittura veramente cinematografica, al di là del titolo dell’album, era così già da “Caramella Smog” e da “Manifesto abusivo”, riesce a fotogrammare alla perfezione quello che canta già solo grazie ai testi. In questo album, invece, la voce e l’interpretazione sono state una vera e propria macchina da presa a 360°, hanno tirato fuori delle inquadrature incredibili, dei giochi di luce ed ombra, dei campi stretti e dei campi larghi, insomma una meraviglia.
E’ uno di quei dischi catartici, talmente pieni di poesia da portare alle lacrime.
Talmente pieni di vita vissuta da risultare necessari.
Ascoltatelo, mi rivolgo nuovamente a quei cavalli coi paraocchi, neo artisti supremi, magari imparerete l’empatia.
Ed anche un po’ a scrivere.
Intanto ben tornato, cantautore lucciola.
Articolo del
05/10/2020 -
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