Ho uno scheletro nell’armadio.
Nel fare la muta per l’inverno l’ho ritrovato ed ora ve ne faccio l’autopsia in diretta.
Dunque, al liceo, quinto anno a voler essere precisi, ho odiato Giacomo Leopardi e tutto quello che il suo universo mi voleva comunicare.
In realtà, parafrasando Corrado Guzzanti e Quelo, “la spiegazione è mal posta”: fu effettivamente colpa di una spiegazione che definirei neoclassica, tutta infiocchettata e carina, per educande dei primi ’50, più che per liceali dei Duemila.
Spiegazione che finì di compiere quanto aveva a sua volta cominciato la spiegazione risalente alle scuole medie, crimine, quest’ultimo, che non fa altro che far passare Leopardi a bambini di tredici anni, che materialmente non hanno gli strumenti per comprenderlo, come un depresso in prossimità di suicidio.
Da coglione quale ero (ma non che ora la situazione si sia tanto evoluta, sia chiaro) anche io ci cascai con tutte le scarpe.
Poi, come detto, il liceo fece il resto: capirete bene che sentirvi dire che “Manzoni descrive il vero, la realtà delle cose, Leopardi no” vi frullino un po’ le scatole, considerando che mi rimane difficile immaginare una operaia della filanda del ‘600 sperticarsi in un addio ai monti così pomposo che Cicerone non avrebbe saputo far di meglio.
Giunti a quel punto le strade erano due, o incaponirsi su Leopardi anche solo per il semplice gusto di andar contro Manzoni e professoressa e confutare quanto detto, o fottersene allegramente e rimanere del parere che Leopardi facesse cagare.
Essendo spesso cocciuto come un mulo, decisi di intestardirmi sulla comprensione, ed alla fine del percorso nella personalissima selva oscura della mia ignoranza, capii quanto stavo rischiando di perdermi, quanto fosse eversiva e rivoluzionaria la poesia di Leopardi, e quanto non venisse capito non solo dai suoi contemporanei, ma anche (e soprattutto) dai posteri.
E basterebbe pensare a quanto riescano tuttora a travisare due parole come “pessimismo” e, soprattutto, “oggettività”: ti dicono che il pessimismo di Leopardi è oggettivo, dimostrando, appunto, di averlo compreso poco. E di parlare anche male.
Il rapporto causa- effetto fra il mondo che lo circonda ed il pessimismo leopardiano viene mandato costantemente in vacca, sacrificato sull’altare dell’ “oggettività” del poeta.
Ma Leopardi non è oggettivo.
E’ reale, lucido. E’ estremamente pragmatico, disilluso. C’è una differenza abissale: non sta dicendo ciò che è, te lo sta raccontando, te ne sta raccontando l’ipocrisia, la contraddizione, la fede cieca di quel secolo superbo e sciocco che non è finito con l’ingresso del ‘900, ma che sembra sempre di più essere un distopico presente continuato.
E’ riuscito nell’impresa titanica di creare questo corto circuito per cui se qualcuno è terribilmente capace di leggere il proprio tempo, talmente lucido e- se vogliamo- anche cinico (in senso buono, ovviamente) da saperlo raccontare, ebbene, automaticamente è depresso.
E si ritroverà di fronte tanti Terenzio Mamiani pronti a dileggiarlo alla prima occasione buona.
Mi capita spesso, quando lavoro, e quindi ascolto musica, di imbattermi in album che hanno questa fantastica capacità di essere veramente immortali, talmente contemporanei da rimanerlo sempre. E non parlo necessariamente della bellezza canonica, ci mancherebbe, né di quella tecnica strettamente legata al dato musicale.
Parlo della loro capacità di sopravvivere ai tempi, di riuscire a catturare delle atmosfere talmente forti che anche un ascoltatore del 3245 sarà in grado di riconoscerci sé stesso ed il suo intorno.
Parlo del loro modo di scrittura, del loro saper raccontare un “ora” che si dilata in un “sempre”.
La prima volta che mi capitò fu quando ascoltai, evidentemente per la prima volta, “Ko de Mondo” dei Csi: fu una folgorazione, io novello San Paolo con la voce di Lindo Ferretti che mi fulminò e mi inchiodò a quel racconto di un’ Europa già in ginocchio, di un mondo occidentale al collasso, racconto del quale “Cupe Vampe” sarà il finale- colpo di grazia.
Mi è ricapitata la stessa cosa ascoltando “Homo Distopiens”, ultimo album di Fabrizio Tavernelli, uno che coi Csi, al tempo dei mitici Afa, quegli Acid Folk Alleanza che, guarda caso, col Consorzio Produttori Indipendenti e con I Dischi del Mulo produssero quel capolavoro di “Fumana Mandala” ed i successivi lavori, lavorò a stretto contatto.
Capirete bene che quando ci si trova di fronte ad album del genere, le reazioni possono essere molteplici.
La prima sensazione che ho avuto io durante il primo ascolto è stata di totale straniamento, come quando, a Varsavia, vidi un cambio della guardia in piena notte in una piazza deserta: avrei voluto non citare quello che sto per scrivere, ma era davvero tutto dannatamente distopico ed orwelliano.
Ecco, a distanza di anni, “Homo Distopiens” mi ha fatto riprovare la stessa allarmata preoccupazione di allora.
A cominciare da “Cose sull’orlo”, pezzo spietato nel suo essere attuale, drammatico racconto di un mondo sfasciato fin dalla sua componente primaria, i suoi ecosistemi. Pezzo che poggia su un tappeto elettronico arricchito, attorno alla sua metà, da delle bellissime svisature di viola, e colorato da una interpretazione vocale sentita e drammatica.
“Distopia muscolare” è invece vestito di tutt’altra atmosfera, incalzante e soffocante. Una batteria quasi militaresca scandisce il pezzo, mentre gli inserimenti della viola creano una vera e propria climax ansiogena, confermata dal finale, volutamente confuso e straniante. Probabilmente il suono di “questo mondo che ormai muore” è davvero quello lì.
Un gioiellino dell’album è “Tormentoni e tormenti”: cinica, caustica e spietata. Ma ha anche dei difetti. No, scherzo, non ne ha. Riesce ad essere radiofonico pur essendo l’antitormentone, l’antidoto ai pezzi “con il culo che twerka e la mente che arranca”. Schitarrate distorte in bella mostra, una linea di basso martellante ed un tappeto di elettronica a far da direttore d’orchestra.
La chitarra con l’ebow di “Lune cinesi” ci regala un pezzo dilatato, quasi fluttuante. Non scompare l’atmosfera carica di tensione, ampiamente presente nel ritmo incalzante dell’inizio di ogni strofa, con lo scatenato fraseggio di chitarra, che ben si sposa con una linea di basso quasi prog, su un pezzo quasi profetico, che racconta di una Cina in cui l’unica costante è quella delle “fabbriche che producono”, mentre “bioritmi si sconvolgono, animali impazziscono”.
“Spire” ha quasi un respiro da world music, con una darbuka a sostenere le due chitarre acustiche in una ritmica scatenata, che rallenta un po’ solamente nel ritornello, dove è abbellita dai contrappunti di viola.
Anche su “Oumuamua”, che prende il nome dal primo asteroide interstellare conosciuto, si trovano elementi da world music, con la parte di bouzouki di strofa e pre chorus montata su un tappeto di microkorg. Notevoli sono i contrappunti di tromba, che aprono l’atmosfera cupa e rarefatta del brano.
Molto bella è la parte della chitarra solista su “Il mondo senza noi”, pezzo impreziosito anche dai contrappunti di viola, che poggiano sul tappeto di piano rhodes. Anche qui non si perde l’atmosfera distopica, da ultima canzone prima dell’Apocalisse, con quei “vuoti che si aprono come voragini”.
Sempre la viola recita un ruolo notevole su “Secondo fine”, fra parti soliste tangheggianti ed ostinati ritmici, su un cantato languido che poggia sulla linea di basso.
“L’uccello giardiniere” ha un testo apocalittico che poggia su una base di elettronica che richiama il verso degli uccelli, mentre la chitarra solista dà ulteriori colori. “Una galleria d’arte che sgocciola i colori dell’apocalisse prossima” è il verso che più di tutti descrive non solo questo pezzo, ma anche tutto l’album: il clima è esattamente quello.
In “Pessimismo co(s)mico” c’è il perfetto sgretolamento di tutta una serie di sistemi sovrastrutturali e di ipocrisie da “magnifiche sorti e progressive”, montate su una struttura musicale acida e cavalcante, con le svisature della chitarra elettrica in bella mostra ed una linea di basso che avvolge come un’anaconda. I giochi di elettronica concludono l’opera con una climax di ansietà.
Su “Ruscarola”, pezzo in dialetto reggiano, il cui titolo dovrebbe essere letteralmente “pattumiera”, l’atmosfera da fine imminente è data dalla voce di Taver e dalla sua interpretazione, mentre la parte musicale è un rincorrersi di elettronica e chitarra elettrica, a tratti dissonante e disturbante.
Chiude l’album “Bargigli e pappagorge”, che doveva essere un pezzo salvifico, ma anche no. E giustamente, fra l’altro: non c’è nessun motivo per essere rassicurante, e questo pezzo spiega anche perché. Su un tappeto di elettronica ci sono solo dei contrappunti di viola a dare (poco) colore, mentre il testo è un lucido commento su quanto sia spesso inutile decantare le bellezze della vecchiaia. E invece no, “essere vecchio fa un po’ schifo”.
“Homo distopiens” è uno di quei dischi che sono quasi palle di vetro, per la lungimiranza con cui riescono a vedere il presente, facendolo quasi diventare futuro, o quantomeno presente continuato. Non è facilissimo all’ascolto, ma se volete cose facili c’è sempre Tommaso Paradiso che vi aspetta. C’è questo movimento di catabasi ed anabasi, il toccare con mano il nulla che sta cominciando ad avvolgerci, per comprenderlo meglio.
E, forse, provare a resistere.
Come una ginestra alle pendici del Vesuvio.
Articolo del
13/10/2020 -
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