Mi capita spesso, soprattutto nelle discussioni informali, di ripetere scherzando che io sono nato “sbagliato”. Ho scritto più volte di avere ventidue anni, per cui, facendo un calcolo abbastanza elementare anche per me, che rimango fermamente convinto che la somma di 1+1 faccia 11, sono nato nel 1998.
Tanto per cominciare a rendere l’idea, circa otto mesi dopo la mia nascita se ne andava De Andrè, che è stato l’incontro musicale che mi ha letteralmente sparigliato tutte le carte, quello su cui ho cominciato a tirar giù i primi accordi di chitarra e che m’ha fatto capire cosa avrei cercato da ascoltatore.
Forse avrete intuito dove sto andando a parare: sono anacronistico, nato in ritardo. Ma non nel senso che mi manchino i codici per capire il mondo in cui vivo, chè quello lo sto riuscendo a fare (non so in che termini, ma già rendermi conto di starlo facendo è comunque qualcosa), né nel senso che comincerò a dire che “si stava meglio quando si stava peggio”, ci mancherebbe.
Sono anacronistico perché sono cresciuto con dei riferimenti culturali che oggi si direbbero “vecchi” (e di quanto, negli anni, mi sia sempre ritrovato ad essere quello che ascolta musica “vecchia” ne ho già scritto), perché mi sarebbe piaciuto veder recitare Bene, veder giocare Baggio, vivere il Tenco di Rambaldi o De Angelis, intervistare Paolo Conte e Battiato, scrivere di musica quando farlo ancora aveva un senso che non fosse solamente il dare “sfogo” alle nostre impressioni ed alle nostre emozioni e tutta una serie di robe simili.
Parto da qui per dire che mi capita (in verità neanche relativamente troppo) raramente di aver a che fare con gente che mi ha, a vario titolo, formato.
Ecco, questo qui è uno di quei casi.
Anche qui, andiamo con ordine: anno 2015, io ero ancora un pericoloso monomaniaco deandreiano, con rare aperture a Fossati e Battiato e, soprattutto, ai Clash. Bene, il mio contesto personale è stato esplicitato. Saltellando su facebook mi venne davanti un “Appino rifiuta l’invito di partecipare a The Voice: è bufera”. Non nego che la prima cosa che mi passò per la testa fu “Chi cazzo è Appino?”, poi aprì l’articolo, lessi la risposta di Andrea e la considerazione si tramutò in “Madonna, quanto se la tira ‘sto Appino”.
Però “quel tarlo mai sincero che chiamano pensiero” mi diceva di star facendo una fesseria a non approfondire, per cui mi armai di santa pazienza ed andai a cercare ‘sti benedetti Zen Circus su YouTube.
Appino era impegnato col tour di “Grande raccordo animale”, ma io, ovviamente, lo ignoravo, ero concentrato su quella band dal nome strano (di chi fossero Bob Mould e soci non ne avevo completamente idea, figurarsi), per cui la cosa più recente che trovai a nome loro fu “Canzoni contro la natura”, di cui mi si parò prepotentemente davanti “Viva”, che di quell’album era il primo singolo.
Finito l’ascolto quel “Madonna, quanto se la tira ‘sto Appino” era diventato “Ma sai che niente niente c’aveva ragione ‘sto Appino”.
Da lì, ovviamente, andai a ritroso, recuperando quanto mi ero perso nei miei anni di spigolosa tetragonia musicale.
Dicevo che questo è uno di quei casi in cui mi trovo a parlare di qualcuno- mio contemporaneo- che mi ha formato perché io agli Zen Circus sono profondamente debitore: quella scoperta del tutto inaspettata e, proprio per quello, ancora più goduta, mi portò definitivamente a capire che si poteva fare della grande musica anche non essendo De Andrè, si potevano dire delle cose importanti e potenti anche con una chitarra elettrica sotto e con un basso martellante. Mi aprirono un mondo, dico davvero. Da loro arrivai agli Afterhours, ai Massimo Volume, ai Csi, agli stessi Hüsker Dü, a Jay Reatard, ai Wire ed a tutto quel mondo bellissimo e spesso nascosto che è la musica underground.
Comincio così per dire che ci sono recensioni piene di stupore per degli album che si rivelano perle, spesso piene anche di contentezza per lo stesso motivo.
E poi ci sono pure quelle piene di gratitudine, questa lo è, facciamo che sia la recensione che Appino, Ufo e Karim mi commissionarono cinque anni fa a loro (e mia) insaputa: senza gli Zen non sarei qui a scrivere probabilmente, sicuramente avrei un bagaglio di cultura musicale molto più esiguo.
E scrivo questo anche per confermare che chi sbandiera l’asetticità del critico non c’ha capito un cazzo. E sarà, in buona parte dei casi, una persona banale, assolutamente insulsa, che si sarà formata facendosi le seghe sui tanti, troppi corsi di scrittura infarciti di minchiate che si trovano in giro. E’ la stessa gente talmente stupida da pensare che un cantautore innamorato faccia automaticamente un disco di merda e che ci debba essere necessariamente chissà quale tormento nella scrittura. Ed infatti, guarda caso, è gente che non ha mai scritto nulla.
E’ gente che va menata. A scopo propedeutico, per carità, ma va menata.
E adesso andiamo al dunque, chè, al netto della narrazione del caso, la recensione c’è sempre.
Il circo Zen torna in pista, lo fa a due anni di distanza da “Il fuoco in una stanza” e con un Sanremo ed un romanzo antibiografico in più sulle spalle.
Lo fanno con un album dal titolo abbastanza attuale, “L’ultima casa accogliente”, nonostante venga da un periodo pre- pandemico.
Nove tracce dense ed a tratti infuocate, scandite da bassi incessanti, un muro di chitarre solidissimo e dei pattern di batteria incandescenti per la parte musicale, da testi come sempre lucidi e caustici per la parte letteraria.
“Catrame” apre il disco, e lo fa spiazzando fin da subito: un attacco vocale a cappella che finisce per lanciare una cavalcata punkeggiante in cui la linea di basso fa veramente da collante ed è decisiva per il decollo definitivo del pezzo. Interessantissime anche le altre due variazioni, il bridge a toni country e la chiusura ancora più spinta. “Una poesia va scritta, dedicata e poi abbandonata / Chi la usa per piacere agli altri beh, l’ha sprecata / Quindi scavami una buca e seppellisci il mio cuore / sulla lapide scrivi “a breve arriva il padrone” “ è un verso che contiene una massima da tenere in costante considerazione- quella sulla poesia da non sprecare, valida per ogni forma d’arte- ed un capolavoro di cinica ironia.
Secondo pezzo è “Appesi alla luna”, ballata acustica che, all’interno dell’album, fa la parte della mosca bianca. Un delicato arpeggio trascina tutto il pezzo, scandito da una batteria quasi marziale dalla seconda strofa. E’ forse il pezzo più emotivamente intenso dell’album, probabilmente anche per il vestito più acustico, e conferma la teoria secondo la quale quando una band rock/ punk tira fuori un pezzo lento, raramente viene fuori roba brutta. Un testo pieno di malinconia e disillusione, in pieno stile Zen Circus, con quel “Siamo accendini senza sigarette/ siamo fame e sete / siamo dei gradini / fra le salite e le discese/ di un milione di miliardi di destini / Appesi alla luna/ sopra Lisbona” che è quasi un cazzotto di poesia.
“Come se provassi amore” è uno degli esempi più fulgidi di come chi si occupa di musica d’autore (trascendendo il genere “tecnico”, ovviamente) vorrebbe sentire cantato l’amore, e non è neanche troppo difficile da capire: basta evitare le banalità ed i vari tòpos letterari, “Come se provassi amore / quanto è difficile da immaginare / come una guerra dove non si muore / o una malattia che non ha sintomi e anche senza cura / non dà dolore / Come se provassi amore / ma non saprei da dove cominciare / Una ferita che non fa male / o una storia che vivi e poi racconti / ma non puoi cambiare, non la puoi cambiare”. Ecco, così. Poi se ci mettiamo sotto una batteria che è quasi una cascata di fill atomici a lanciare i ritornelli ed una prova interpretativa potente e trascinante il gioco è definitivamente fatto.
Uno dei pezzi più belli del lavoro è “Non”, probabilmente è quello più sanguinante, e si sente nella prova interpretativa di Andrea. Un pezzo che si apre col pianoforte, per poi andare in crescendo con l’entrata degli altri strumenti, con una chitarra acustica a tenere la ritmica e l’elettrica a fare i contrappunti. Un pezzo che parla di insicurezza, di rapporti interpersonali, di distacco dalla propria infanzia. Con un verso struggente come “Salvami dai mostri, dal mondo / salvami da quello che voglio / il male profondo / dalla morale, dall’obbedienza / dalla normalità fatta sentenza / dalla vergogna, dall’efficienza / la sicurezza, la sufficienza”.
“Bestia rara” è uno dei pezzi più potenti dell’album, a tratti violento. Ma d’altro canto la storia che c’è dietro è una di quelle da brividi: si ispira alla Filomena di “Filomena e Antonio”, documentario di Antonello Branca del ’76, nel quale, appunto, Filomena ed Antonio, due tossicodipendenti, raccontano con una lucidità spietata della loro vita di poveri cristi, visti appunto come “bestie rare”. Così il pezzo si trasforma in un atto d’accusa verso una provincia opprimente e bigotta, fatta di pregiudizio e di indici puntati che fa da sfondo alle vicende di una ragazza che non trova più una “casa accogliente” nel proprio corpo. E’ un pezzo abbastanza vicino alle produzioni precedenti, con una liberatoria coda strumentale nel finale ed una chitarra acustica acida, che si va ad intarsiare con dei synth. Potentissimo e provocatorio quel “sorridi ancora, piccola Gesù” riferito al momento dell’aborto: sicuramente avranno cazzi, altrettanto sicuramente li si difenderà a spada tratta, chè versi così deflagrantemente anti- ipocriti sono quello che ci vuole per “un paese di canzonette mentre fuori c’è la morte”.
“Ciao, sono io” è- musicalmente- la quota guascona dell’albu, un pezzo dai toni blueseggianti molto fresco, con una linea di basso a fare da quota imprevedibilità ed una linea vocale ariosa. Chiaramente mettendosi il testo davanti la leggerezza apparente si smorza un po’, fra tempo che passa, la narrazione avviene praticamente in flashback, lotte per la vita che risvegliano la stessa voglia di vivere e spaccati di vita da operaio. “Parole libere di essere sole/ fatti schiavi di essere compiuti/ ma quanta voglia ci vuole/ per essere amati senza barare”
Settima traccia dell’album è “Cattivo”, quasi due canzoni in una: una parte- quella delle strofe- più cupa, con una metrica ed un flow particolarissimi, mentre la linea melodica è un continuo saliscendi di modi minore e maggiore. A fargli da contraltare c’è il ritornello, molto più aperto ed arioso, quasi liberatorio. “Ma per rinascere stavolta devo essere ucciso” è la chiave di lettura del brano, e riuscire a spiegare un brano in un verso riescono a farlo in pochi.
“2050” è una lunga cavalcata dai toni elettrici, con la già citata tempesta di fill di batteria a spezzare la canzone, una linea di basso marcata in pieno stile Zen Circus ed una rete di schitarrate elettriche.
Anche qui, per spiegare il senso del pezzo basta citarne un passaggio, “i grattacieli spenti emergono dal mare / a ricordarci cosa abbiamo fatto e che possiamo fare / quando lui ti chiederà che cosa ha fatto la gente / digli “Abbiamo fatto tutto, non abbiamo fatto niente/ scisso gli atomi di una conchiglia / vinto la morte, perso la meraviglia / strappato foreste come fili d’erba / abbiamo dato un nome ad ogni stella / fatto l’amore senza capirne nulla / condannata la pace ad essere anche guerra / cambiato il corso dell’acqua corrente / abbiamo fatto tutto, abbiamo fatto niente”. Quando mi capiterà di dover spiegare cosa i greci intendessero con “deinòs”, beh… saprò cosa utilizzare come esempio.
A chiudere il lavoro ci pensa la title track, che è un pezzo che vive di una incredibile duplicità: è una canzone d’amore, con una chiusura piena di speranza, ma montata su una parte strumentale cupa, che ha un range di richiami che vanno dai Pink Floyd a Nick Cave, con una coda strumentale meravigliosa. Da sottolineare la seconda strofa, sostenuta quasi interamente dalla linea di basso, le varie parti soliste di elettrica e l’utilizzo dell’harmonizer (o comunque di un qualche suo parente stretto) come lancio al ritornello. “In questo bosco, dentro a questa casa risorgeremo / e sulla notte torna il sereno.”
In conclusione si tratta, come scrivevo sopra, di un album corposo, sanguigno. C’è una rabbia che trova un po’ meno spazio, per lasciare il posto ad una riflessività più accentuata. C’è il conflitto interiore: la tematica esistenziale trova, come sempre, ampio spazio, raccontata dalla narrazione verbosa e lucida di un Appino che conferma l’unicità della sua scrittura. Musicalmente ci sono tutti gli stilemi del Circo Zen, tutte le loro sonorità. Ci sono dentro anche tutti i loro ascolti: riuscire a passare da un punk- rock infuocato alla ballata acustica alle atmosfere più rarefatte o a quelle più fresche significa ascoltare veramente tanta, tantissima roba. Ascoltarla e comprenderla.
E’ un lavoro carnale, vivo, interamente suonato, a tratti politico- l’atto del cantare l’amore, ed ancora di più farlo fuggendo dalla rima paracula, è una scelta di campo artistica ben precisa. E, come tutti i lavori degni di nota, nasce dall’esigenza di comunicare, dal bisogno di farlo con le armi che si hanno a disposizione. Come ogni grande disco è catarsi e palingenesi, percorso da palombaro e liberazione, presa di coscienza e continuo conflitto.
Un disco da tenersi stretto: i tempi sono quelli che sono, ma lavori come questo confermano che, spesso, la musica diventa davvero “l’ultima casa accogliente”.
Articolo del
13/11/2020 -
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