Raccontare venti anni della storia di un Paese in 100 minuti non è certo impresa facile. Andrea Scanzi, diretto da Angelo Generali ed affiancato in musica da Giulio Casale, accetta la sfida scegliendo come metodo di narrazione quel teatro canzone che ha avuto in Italia nobili interpreti come Giorgio Gaber.
Il racconto parte da una morte reale ma al tempo stesso profondamente simbolica: quella di Enrico Berlinguer (11/06/1984) che muore a Padova dopo aver portato a termine, con estrema sofferenza per il male che lo aveva ormai sconfitto, il suo ultimo discorso pubblico. Morte simbolica, si diceva, perché quello è il momento dal quale, secondo la narrazione di Scanzi, in Italia di scatena una slavina che travolge (e sommerge) tutto e tutti. Terminati da poco gli anni Settanta, quelli del “noi”, quelli dei cantautori “pesanti, cupi”, si passa rapidamente all’edonismo che esalta l’io, alle canzonette più leggere dei Duran Duran, ad un progressivo e generalizzato senso di non-appartenenza. Tutto si mescola, fino a diventare irriconoscibile. Non ci sono più punti di riferimento: la politica non aggrega più, e il paese sembra smarrito. Si avverte l’esigenza di colmare un vuoto: e cosi i nuovi comici dell’epoca (Guzzanti, Luttazzi, Paolo Rossi) diventano interpreti di un pensiero alternativo, e i giornalisti (Santoro, Travaglio) sembrano destinati alla sola opposizione mediatica di fronte ad una classe politica sempre più imbarazzante. Ma tutto rimane confuso: siamo alla fine del secolo e i concetti novecenteschi di destra e sinistra cominciano ad apparire superati, tanto che chi è di sinistra ripone speranze nelle accuse al potere di Travaglio “che certo non è di sinistra”.
Si parte dunque da una morte, quella di Berlinguer, e si approda ad un'altra morte, quella di Pantani (14/02/2004): in mezzo venti anni in cui sarebbe potuto cambiare molto, ma il volto del paese al termine di quei due decenni è un volto rassegnato. Dove non ci si indigna più, dove si accetta passivamente l’eccezione come regola, dove tutti i “match point” che la storia ci ha posto davanti li abbiamo miseramente falliti. Ovvio, Scanzi non commette l’errore di accomunare tutto in un ottica negativa e priva di speranza. Cosi sceglie simboli, fotografie, frasi che sembrano arginare in parte quel vuoto culturale, sociale, artistico dilagato in quel ventennio. Ed allora ci racconta di Troisi, che come Berlinguer, muore con l’idea altissima della sua arte (a chi gli consigliava di andare a Houston per la necessità urgente di operare il suo cuore malato, Massimo rispondeva: “questo film lo amo e lo voglio fare con il mio cuore”). Ci racconta di Falcone e Borsellino, eroi dell’immaginario collettivo, ma soprattutto di Caponnetto, ideatore del pool antimafia, che dopo la morte di Borsellino, straziato dal dolore, di fronte ai giornalisti commise l’imperdonabile errore di dire: “E’ tutto finito!” Imperdonabile errore perché detto da lui, che, in quanto Stato, non poteva arrendersi di fronte alla mafia e che per questo girò poi per molti mesi nei licei di tutta Italia a trasmettere alle nuove generazioni quello che era stato il messaggio dei due eroi uccisi. Ma questi ritratti hanno comunque un volto malinconico: dovrebbero essere esempi da cui ripartire verso la costruzione di un paese migliore, e non oasi di un deserto che ha invaso ogni aspetto del vivere civile. Ed invece, purtroppo sono li, sospese in un limbo in cui tutti sembriamo incapaci di reagire. E chi ha provato a reagire, come le migliaia di giovani che hanno contestato in piazza il G8 di Genova, sono stati a tal punto repressi che Amnesty International, su quell’evento passato alla storia come “una operazione di macelleria messicana”, ha scritto che si è verificata “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”.
Lo spettacolo ha il pregio di essere stimolante, soprattutto per quelle generazioni di quarantenni (come il narratore Scanzi) che hanno votato per la prima volta nel 1994, cioè quando è sceso in campo Berlusconi. Ha l’obiettivo di provocare una reazione, di spingerci a “farci uscire il sangue dal naso” lottando, magari in maniera diversa dalle generazioni degli anni 70, ma lottando. C’è però una ambiguità di fondo, da cui Scanzi si tiene abilmente dietro le quinte. E cioè, se il limite più grande della sua generazione è stato quello di non appartenere a nessun credo (politico innanzitutto), dovremmo poter ricostruire dei simboli riconosciuti e riconoscibili, ognuno per la propria vocazione ed inclinazione. Dovremmo cioè avere bene in mente quale è l’Italia che sogniamo, per capire con chi vogliamo intraprendere un percorso di lotta per realizzare quel sogno, riconoscere i nostri amici e i nostri nemici, ed evitare cosi di essere accumulati nei calderoni populistici che raccolgono un confuso malcontento e che la politica moderna sembra interpretare perfettamente. In questo, io credo, i vecchi schemi destra-sinistra non possono essere considerati cosi sorpassati. Soprattutto perché quegli schemi, ad oggi, non sono stati sostituiti da altri validi elementi di aggregazione. “La speranza è una trappola, è una cosa infame inventata da chi comanda” diceva Monicelli. E condivido pienamente la speranza di Scanzi: poter un giorno dire che Monicelli si era sbagliato perché avremo costruito un paese migliore. Fermo restando che, quando si intraprende un viaggio, è fondamentale conoscere bene i nostri compagni per non dover scoprire poi che ci eravamo sbagliati noi.
Articolo del
01/03/2016 -
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