Un'eroina, Artemisia Gentileschi. Oggi la definiremmo così, poichè riuscì ad affermare se stessa e l'essere donna in un mondo, quello dell'arte italiana della prima metà del XVII Secolo, dominato dalle figure maschili. E furono proprio due di queste a segnarla nel profondo, come si evince dall'esposizione che si tiene fino al 7 maggio nelle sale del Museo di Roma a Palazzo Braschi.
Due uomini, entrambi pittori, che più degli altri furono centrali nella sua esistenza, uno nel bene e uno nel male. Il primo fu il padre, Orazio, dal quale apprese l'arte riprendendone il limpido rigore disegnativo; il secondo, Agostino Tassi, colui che la violentò - e divenne famoso più per questo che per i suoi quadri - approfittando dell'amicizia con lo stesso genitore e determinandone indirettamente quel sentimento di rivalsa femminile che in seguito sarebbe affiorato, prepotente, nelle sue tele, alcune delle quali dall'impressionante potenza espressiva come "Giuditta che taglia la testa a Oloferne", "Susanna e i vecchioni", "Ester e Assuero" e "Autoritratto come suonatrice di liuto". Opere caratterizzate da una forte intensità cromatica ed emotiva, oltre che dalla complessità nelle linee e nelle espressioni dei volti. Chiare anche le suggestioni caravaggesche dei lavori, ma anche l'interesse dell'autrice per gli studi di Galileo, come dimostra "Aurora".
Artemisia fu uno dei maggiori emblemi del suo tempo, e la sua vicenda artistica si lega indissolubilmente alla sua biografia, avvicinandola alle istanze femministe del secolo scorso e rendendone attuale l'opera, qui in mostra secondo un criterio cronologico che va dai primi anni vissuti a Roma ai successivi soggiorni in varie città italiane e a Londra, dove si recò per un breve periodo per assistere il padre malato ma dove pure proseguì la sua attività di pittrice poichè a reclamarla fu nientemeno che Carlo I.
La retrospettiva, intitolata Artemisia Gentileschi e il suo tempo, vanta molte tele in prestito dai più prestigiosi musei del mondo, come il Metropolitan Museum di New York, il Wadsworth Atheneum di Hartford, in Connecticut, e il Museo di Capodimonte. Non solo. L'artista romana è anche messa a confronto con i suoi colleghi, frequentati durante i periodi vissuti a Firenze, Venezia e Napoli, e coi quali la pasionaria figlia d'arte ebbe innumerevoli scambi artistici.
In particolare, Guido Cagnacci, Simon Vouet e Giovanni Baglione, conosciuti dalla Nostra nella Capitale; Cristofano Allori, Francesco Furini e Giovanni Martinelli, frequentati nel capoluogo toscano alla corte di Cosimo de' Medici; e infine Giuseppe Ribera, Francesco Guarino, Massimo Stanzione, Onofrio Palumbo e Bernardo Cavallino, coi quali intessé proficue collaborazioni nella città partenopea
Articolo del
28/03/2017 -
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